Le Kickers zuppe d’acqua fino alle caviglie, il giubbotto di velluto a
coste talmente bagnato da pesare il doppio, le mani intorpidite a non
sentirle, le guance viola ed il viso quasi cianotico. C’era quasi sempre
la voce roca del vento freddo ad accompagnare le urla di mia madre che
imprecava dal balcone intimandomi di rientrare per evitare una febbre
quasi certa che mi avrebbe fatto perdere certamente una settimana di
scuola. Poi c’erano i piedi infilati quasi fin dentro il
braciere che rilasciava quel profumo di carbone mescolato a quello
delle bucce di mandarino o di mela che mi divertivo a spezzettare e
lanciare sul fuoco. Mio padre preparava la salsiccia al cartoccio da
poggiare direttamente sulla brace, un gesto consueto a metà strada tra
rito antico e necessità di riscaldare lo stomaco che quasi non
rispondeva più. I primi ricordi legati al mio rapporto con la neve,
hanno un sapore intimo e familiare che mi restituisce una struggente
dicotomia. All’inalienabile sensazione di freddo, per quell’aria
pungente che tagliava la pelle, per quelle assenze che non avrei mai più
colmato, si unisce un ricordo tiepido che diventa via via sempre più
caldo e che ritrovo nell’idea, nelle immagini di quel braciere che ho
ancora negli occhi, nel sapore di quella salsiccia, nel pensiero di casa
come unico approdo sicuro per il corpo e per l’anima.
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