giovedì 27 settembre 2018

LA RIFLESSIONE. STA NEL SENSO DEI LUOGHI, LA VIA DEL RITORNO

Chiudono le scuole in Aspromonte e nell’entroterra di un Sud dove le bandiere bianche che sventolano nelle piazze sempre più vuote, continuano a crescere di numero. 

Con le scuole chiudono gli uffici, i negozi, i principali servizi, abdicano progressivamente i principali presìdii di uno Stato sempre più lontano dalle periferie, in un contesto in cui il silenzio nelle aule di Roccaforte del Greco, Canolo e Careri non è che l’ultimo requiem, cartina di tornasole di quella che si configura come una poderosa opera di spoliazione umana e culturale. Certo la deriva dell’entroterra calabrese e del Sud in generale, ha radici profonde, lontane nel tempo, e così chi ha vissuto e continua a vivere nei luoghi dell’abbandono porta sulla propria pelle le cicatrici di una metamorfosi tutt’altro che indolore, un cambio di rotta che negli ultimi quarant’anni ha trasformato i paesi nella loro essenza, svuotandoli, privandoli della loro anima, mutando la loro originaria vocazione di collettori sociali. Chi continua a vivere in questi luoghi di confine, nella trincea della resistenza lo fa portando negli occhi e nella mente una dolorosa dicotomia. Le immagini vivide dei paesi sempre più vuoti camminano al fianco di quelle sempre più sfocate del ricordo di come erano, pieni di vita, di socialità, depositari di un’anima. 
La questione scuola appare dunque come la punta dell’iceberg, utile ad aprire il fronte di una discussione di natura assai vasta, complessa, perché la risoluzione pur necessaria di una problematica contingente come può essere quella della chiusura di una scuola rischia di apparire inutile, quasi anacronistica in assenza di un ragionamento di prospettiva. La domanda da porsi è piuttosto in quale direzione si sceglie di andare, se a nord o a sud, dove il nord ed il sud sono da intendersi come ideali direttrici nel percorso che collega la costa all’entroterra. Serve certo un colpo di reni, serve la forza e la voglia di immaginare una Calabria interna diversa, serve un impegno collettivo che non può certo essere solo quello della politica, peraltro assente o comunque spesso incapace di leggere tra le pieghe della storia, quella passata e quella recente ed ancor più incapace di immaginare in modo organico e razionale un futuro. Serve un impegno che sia della classe intellettuale e della parte sana e produttiva di una società, spesso immobile, piegata su se stessa. Certo ci sono poi anche le voci che si stagliano nel silenzio, oggi fortunatamente assai più numerose rispetto a qualche anno fa. C’è ad esempio quella di Vito Teti, antropologo, docente di antropologia culturale all’Università della Calabria. La sua è certamente una delle voci che ricordo meglio, una di quelle che mi fa compagnia da tanti anni e che negli anni ho imparato ad amare perche nei contenuti più che nell’inflessione vi ritrovo una parte del mio pensiero e della mia sofferenza. È una voce la sua che ci dice di una Calabria che sta scomparendo e lo fa unendo il piglio dell’antropologo al dolore di chi la metamorfosi l’ha vissuta e continua a viverla quotidianamente, analizzandone aspetti profondi, dinamiche e possibili soluzioni. 
Racconta la sua Calabria Teti, lo fa senza soluzione di continuità nelle scuole come nelle università, nei piccoli centri così come nelle principali Città della regione, lo fa al fianco di docenti, amministratori, intellettuali, come il compianto Pasquino Crupi e Pasquale Tuscano già docente presso l’Università di Perugia. La Calabria spiegata da Teti è una terra storicamente segnata dalla presenza dell’uomo nelle aree interne, quella che troviamo nei suoi libri, “Il senso dei luoghi”, “Maledetto Sud”, “Terra Inquieta”, Pietre di pane”, “Quel che resta” e tanti altri. “Serve un grande progetto di rinascita economica - mi diceva Teti a margine di un’incontro che condividemmo qualche anno fa ai piedi del castello dei Ruffo di Amendolèa - ma prima ancora serve un grande sogno che porti alla consapevolezza di come la Calabria ma più in generale il meridione non possano vivere prescindendo dalle proprie aree interne perché lo spopolamento significa desertificazione produttiva e culturale”. Servirebbe allora il culto della “restanza”, neologismo assai caro al professore,  un termine che mette l’accento su un nuovo modo di concepire la pratica del restare, non inteso come immobilismo o chiusura, ma ponendosi il problema di chi resta in maniera nuova, magari unendo l’importanza del viaggio a quella del rimanere. Restare oggi nei paesi significa paradossalmente mettersi in discussione, perché al contrario di ciò che avveniva un secolo addietro, la più forte forma di sradicamento oggi secondo Teti non la vive più chi parte, quanto invece chi decide di restare. Guardo i luoghi di sempre svuotarsi ogni anno di più e mi chiedo dove stia la convenienza nel rimanere, nell’immaginare una vita “periferica”, il professore mi  risponde che bisogna saper fare i conti, pesare quanto una terra ti può concedere e soprattutto a fronte di quale contropartita. Certamente, chi decide di rimanere oggi non è più isolato dal resto del mondo, dunque la convenienza starebbe anche solo nello scegliere di rimanere nei luoghi che si amano. Dice bene il professore, quando parla di luoghi che si amano, ecco forse è proprio questo uno dei nodi principali, la capacità di provare amore per i luoghi, per le persone, per la propria storia, quella personale che si intreccia con quella di chi ti sta vicino, diventando nel tempo collettiva. La capacità di innamorarsi nuovamente, di leggere i luoghi e le opportunità unendo al calcolo una parte di cuore, una pratica che richiede uno sforzo supplementare, un allenamento al bello, un’attitudine a coniugare ricordi e prospettive. L’impegno di Vito Teti e di quanti come lui sognano un ideale ritorno, ci regala se non altro la lettura attenta, dolorosa ma illuminante di una questione sociale che al contrario di quanto molti continuano a sostenere non è irreversibile. È vero, da un lato della medaglia c’è l’immagine di una terra perennemente in fuga da se stessa, dove i paesi si frammentano fino a scomparire, dove i rapporti tra gli individui si mescolano in un groviglio tra vecchio e nuovo, tra fermate e ripartenze, salti in avanti e continui passi indietro, dall’altro c’è però anche la necessità di restituire un senso ai luoghi sofferti e marginali che rappresentano il nostro passato ed il nostro presente ma che soprattutto potrebbero rappresentare il nostro futuro. Servirebbe forse proprio questo, la voglia di ripartire da un ritrovato senso dei luoghi, da quel titolo profetico ed invitante di un lavoro del professore, il rischio sarebbe altrimenti quello di perdere anche la speranza di rivedere di nuovo tanti sorrisi, utili a cancellare le lacrime, quelle ultime dei bimbi e delle famiglie di Roccaforte, Canolo e Careri, unite a quelle dei tanti andati via col lutto nel cuore e dei molti rimasti a fare i conti con lo spaesamento.          

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