Chiudono le scuole in Aspromonte e nell’entroterra
di un Sud dove le bandiere bianche che sventolano nelle piazze
sempre più vuote, continuano a crescere di numero.
Con le scuole chiudono gli
uffici, i negozi, i principali servizi, abdicano progressivamente i principali
presìdii di uno Stato sempre più lontano dalle periferie, in un contesto in cui
il silenzio nelle aule di Roccaforte del Greco, Canolo e Careri non è che
l’ultimo requiem, cartina di tornasole di quella che si configura
come una poderosa opera di spoliazione umana e culturale. Certo la deriva
dell’entroterra calabrese e del Sud in generale, ha radici
profonde, lontane nel tempo, e così chi ha vissuto e continua a vivere
nei luoghi dell’abbandono porta sulla propria pelle le cicatrici di una
metamorfosi tutt’altro che indolore, un cambio di rotta che negli ultimi
quarant’anni ha trasformato i paesi nella loro essenza, svuotandoli, privandoli
della loro anima, mutando la loro originaria vocazione di collettori
sociali. Chi continua a vivere in questi luoghi di confine, nella trincea della
resistenza lo fa portando negli occhi e nella mente una dolorosa dicotomia. Le
immagini vivide dei paesi sempre più vuoti camminano al fianco di quelle sempre
più sfocate del ricordo di come erano, pieni di vita, di socialità, depositari di un’anima.
La
questione scuola appare dunque come la punta dell’iceberg, utile ad aprire il
fronte di una discussione di natura assai vasta, complessa, perché la
risoluzione pur necessaria di una problematica contingente come può essere
quella della chiusura di una scuola rischia di apparire inutile, quasi
anacronistica in assenza di un ragionamento di prospettiva. La domanda da porsi
è piuttosto in quale direzione si sceglie di andare, se a nord o a sud, dove il
nord ed il sud sono da intendersi come ideali direttrici nel percorso che
collega la costa all’entroterra. Serve certo un colpo di reni, serve
la forza e la voglia di immaginare una Calabria interna diversa, serve un
impegno collettivo che non può certo essere solo quello della politica,
peraltro assente o comunque spesso incapace di leggere tra le pieghe della
storia, quella passata e quella recente ed ancor più incapace di immaginare in
modo organico e razionale un futuro. Serve un impegno che sia della classe
intellettuale e della parte sana e produttiva di una società, spesso immobile, piegata su se stessa. Certo ci sono poi anche le voci che si stagliano
nel silenzio, oggi fortunatamente assai più numerose rispetto a qualche anno
fa. C’è ad esempio quella di Vito Teti, antropologo, docente di
antropologia culturale all’Università della Calabria. La sua è certamente una
delle voci che ricordo meglio, una di quelle che mi fa compagnia da tanti anni e
che negli anni ho imparato ad amare perche nei contenuti più che
nell’inflessione vi ritrovo una parte del mio pensiero e della mia
sofferenza. È una voce la sua che ci dice di una Calabria che sta scomparendo e
lo fa unendo il piglio dell’antropologo al dolore di chi la metamorfosi l’ha
vissuta e continua a viverla quotidianamente, analizzandone aspetti profondi,
dinamiche e possibili soluzioni.
Racconta la sua Calabria Teti, lo fa senza
soluzione di continuità nelle scuole come nelle università, nei piccoli centri
così come nelle principali Città della regione, lo fa al fianco di docenti,
amministratori, intellettuali, come il compianto Pasquino Crupi e Pasquale
Tuscano già docente presso l’Università di Perugia. La Calabria spiegata da
Teti è una terra storicamente segnata dalla presenza dell’uomo nelle aree
interne, quella che troviamo nei suoi libri, “Il senso dei luoghi”, “Maledetto
Sud”, “Terra Inquieta”, Pietre di pane”, “Quel che resta” e tanti altri. “Serve
un grande progetto di rinascita economica - mi diceva Teti a margine di
un’incontro che condividemmo qualche anno fa ai piedi del castello dei Ruffo di
Amendolèa - ma prima ancora serve un grande sogno che porti alla consapevolezza
di come la Calabria ma più in generale il meridione non possano vivere prescindendo
dalle proprie aree interne perché lo spopolamento significa desertificazione
produttiva e culturale”. Servirebbe allora il culto della “restanza”, neologismo
assai caro al professore, un termine che
mette l’accento su un nuovo modo di concepire la pratica del restare, non
inteso come immobilismo o chiusura, ma ponendosi il problema di chi resta in
maniera nuova, magari unendo l’importanza del viaggio a quella del rimanere.
Restare oggi nei paesi significa paradossalmente mettersi in discussione,
perché al contrario di ciò che avveniva un secolo addietro, la più forte forma
di sradicamento oggi secondo Teti non la vive più chi parte, quanto invece chi decide
di restare. Guardo i luoghi di sempre svuotarsi ogni anno di più e mi chiedo dove
stia la convenienza nel rimanere, nell’immaginare una vita “periferica”, il
professore mi risponde che bisogna saper
fare i conti, pesare quanto una terra ti può concedere e soprattutto a fronte
di quale contropartita. Certamente, chi decide di rimanere oggi non è più
isolato dal resto del mondo, dunque la convenienza starebbe anche solo nello
scegliere di rimanere nei luoghi che si amano. Dice bene il professore, quando parla di
luoghi che si amano, ecco forse è proprio questo uno dei nodi principali, la
capacità di provare amore per i luoghi, per le persone, per la propria storia,
quella personale che si intreccia con quella di chi ti sta vicino, diventando nel
tempo collettiva. La capacità di innamorarsi nuovamente, di leggere i
luoghi e le opportunità unendo al calcolo una parte di cuore, una pratica che
richiede uno sforzo supplementare, un allenamento al bello, un’attitudine a
coniugare ricordi e prospettive. L’impegno di Vito Teti e di quanti come lui sognano un ideale ritorno, ci regala se non altro la lettura attenta,
dolorosa ma illuminante di una questione sociale che al
contrario di quanto molti continuano a sostenere non è irreversibile. È vero, da un lato della medaglia c’è l’immagine di una terra perennemente
in fuga da se stessa, dove i paesi si frammentano fino a scomparire, dove i
rapporti tra gli individui si mescolano in un groviglio tra vecchio e nuovo,
tra fermate e ripartenze, salti in avanti e continui passi indietro, dall’altro
c’è però anche la necessità di restituire un senso ai
luoghi sofferti e marginali che rappresentano il nostro passato ed il nostro
presente ma che soprattutto potrebbero rappresentare il nostro futuro. Servirebbe forse proprio questo, la voglia di ripartire da un ritrovato senso
dei luoghi, da quel titolo profetico ed invitante di un lavoro del professore, il
rischio sarebbe altrimenti quello di perdere anche la speranza di rivedere di nuovo tanti sorrisi, utili a cancellare le lacrime,
quelle ultime dei bimbi e delle famiglie di Roccaforte, Canolo e Careri, unite
a quelle dei tanti andati via col lutto nel cuore e dei molti rimasti a fare i conti con lo spaesamento.
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