“Liberi di scegliere” è questo
il titolo assai più che metaforico della pellicola dedicata all’esperienza che
vede protagonista il presidente del Tribunale dei minori di Reggio Calabria
Roberto Di Bella, impegnato in quella che può senza dubbio definirsi
un’operazione di rinascita culturale, dalla quale proprio in questi giorni stando
prendendo le mosse tutta una serie di iniziative ad ampio raggio che passando dalle
scuole alle carceri ci consegnano la cifra di un cambiamento di rotta in atto
ormai da tempo.
Il film coprodotto da Rai Fiction e Bibi Film, diretto da
Giacomo Campiotti parla del coraggio del presidente del Tribunale per i minori
di Reggio, nel film Marco Lo Bianco, interpretato da Alessandro Preziosi,
impegnato nella concretizzazione di misure alternative attraverso cui fornire
ai ragazzi nati in famiglie di mafia almeno una possibilità di crescita lontano
dai cointesti di riferimento, offrendo così loro la possibilità di scegliere consapevolmente
il proprio futuro. Ci sono tante lettere sulla scrivania di Roberto Di Bella,
ce ne accorgiamo fin da subito, appena entrati nel suo studio dove con garbo ed
attenzione ci riceve in un freddo pomeriggio di metà febbraio. Siamo andati a
trovarlo per parlare con lui di questa straordinaria esperienza, quella
televisiva e naturalmente quella reale. Lo abbiamo raggiunto in quella che
ormai da anni è la sua seconda casa, quell’ufficio divenuto nel tempo quasi un
luogo di frontiera, crocevia di sorrisi e di lacrime, di abbracci di benvenuto e
saluti di addio dal sapore non sempre uguale, frutto di sentimenti contrastanti
e spesso contrastati. Ha una faccia da persona buona il dottor Di Bella,
schietta, sincera, la faccia di un uomo che lascia trasparire in modo netto il
suo approccio alle problematiche della vita, quelle particolari, intime, sofferte,
che per essere affrontate richiedono un’attitudine all’empatia, al contatto
umano, agli sguardi, ai sorrisi ed alle parole, specie a quelle non dette. Torniamo
alle lettere sulla scrivania, perché non sono lettere qualsiasi quelle, sono missive
che assumono il valore della testimonianza, fogli che diventano una finestra
spalancata su di un mondo parallelo, fatto di sofferenza, di privazioni, di
rimpianti e disillusioni. Una di quelle lettere, ripresa poco tempo fa da un
noto quotidiano nazionale, è a firma di un tale Giuseppe, un giovane boss della
‘ndrangheta, detenuto da circa dieci anni in regime di 41 bis, su di lui
gravano come un macigno una condanna definitiva a diciotto anni per
associazione mafiosa ma soprattutto un’altra in primo grado all’ergastolo per
omicidio. Giuseppe ha un figlio oggi dodicenne e sono il pensiero di quel
bambino, unito allo spauracchio del carcere a vita ha guidare la sua mente e la
sua penna.
“Scrivo da padre che soffre
per il proprio figlio e sono d’accordo con Lei quando dice che solo
allontanandolo da questo ambiente potrà forse avere un futuro migliore. Se
avessi avuto le stesse possibilità, forse non sarei dove sono adesso”. In
queste righe iniziali di una missiva ben più lunga, troviamo l’essenza dell’opera
di Roberto Di Bella, il dna di un cambiamento che fino a poco tempo fa sembrava
impensabile, improponibile. Agli albori degli anni ottanta la legge Rognoni-La
Torre rappresentò lo spartiacque utile ad entrare nel cuore degli istituti di
credito siciliani, quelli che le cronache dell’epoca definirono i “santuari”
della mafia. Oggi l’impegno ed il senso di responsabilità di Roberto Di Bella
uniti ad un coraggio non comune, hanno prodotto un risultato certamente più
importante di quello, perché non è azzardato parlare anche in questo caso di
santuari. Entrare nel cuore delle famiglie di mafia, significa infatti cercare
di scalfire un monolite granitico, uno scrigno in cui vengono custodite le
regole che devono essere tramandate in nome ed attraverso un vincolo di sangue inviolabile,
indissolubile.
Entrare nell’enclave familiare significa cercare di scardinare
dal di dentro un’ideologia, un credo, un modo di essere praticato in modo
pedissequo, con ostinazione, quasi con religiosa osservanza. Proprio per questo
l’azione portata avanti da Di Bella riveste un’enorme valenza sociale che ha
dato la stura ad un cambiamento per certi versi dirompente. Abbiamo
chiesto al dottor Di Bella, quando e come nasce l’idea di una fiction su questa
storia. “L’idea - ci dice - nasce intorno al duemilaquindici da un
incontro con la sceneggiatrice Monica Zapelli, la stessa sceneggiatrice de I
Cento Passi, pellicola dedicata alla storia di Giuseppe Impastato e di Lea,
dedicata alla tragedia di Lea Garofalo. L’idea mi ha coinvolto fin da subito, e
dall’inizio ho inteso precisare al regista che la figura del giudice non
sarebbe dovuta emergere come quella dell’eroe, piuttosto avrebbe dovuto
coniugare l’autorevolezza ad una necessaria empatia verso i ragazzi e verso le
madri che come vedremo hanno un ruolo fondamentale in questa vicenda. Quanto
il personaggio televisivo si avvicina realmente a Roberto Di Bella ? “Il
regista, ma anche chi si è occupato di scrivere la sceneggiatura hanno fatto un
lavoro straordinario. Non è facile conciliare i tempi televisivi assai
ristretti, con l’esigenza di far comprendere un messaggio così importante e
complesso a chi non conosce un contesto particolare come quello delle famiglie
di mafia e lo sfondo sociale in cui operano. Il giudice deve essere misurato ed
allo stesso tempo depositario di una sofferenza emotiva che viene fuori puntualmente
quando si occupa di ragazzi con simili problematiche. La forza che lo spinge ad
andare avanti anche di fronte a situazioni che appaiono insormontabili risiede
nella speranza del riscatto”. A breve partirà un ciclo di iniziative promosse
da Libera e dal Centro sociale Agape che faranno tappa in diversi istituti
scolastici e in alcuni istituti penitenziari. Sembra poi che il CSM abbia
invocato una legge specifica su questo tema, cosa ci può dire rispetto a questo
?. “Le iniziative che partiranno a breve rivestono una grande valenza,
perché rivolgere un messaggio così importante ai ragazzi delle scuole era
assolutamente necessario, come lo è indirizzare un’attenzione particolare alle
carceri, spesso intesi come luoghi marginali cui non pensare. Ad oggi ci
troviamo di fronte ad una situazione di difficile gestione, per uscire dalla
quale sarebbe necessario creare delle reti di supporto ai provvedimenti,
passando da una seria formazione di professionisti, psicologi, assistenti
sociali, educatori, famiglie affidatarie che abbiano una preparazione specifica,
ma oltre a questo serve anche e soprattutto un concreto aiuto da parte dello
stato, che garantisca ai ragazzi ed alle madri che scelgono di allontanarsi dai
propri contesti di appartenenza, la certezza di un inserimento nel mondo del
lavoro piuttosto che l’accesso ad un’adeguata istruzione”. A che punto siamo rispetto a
questo percorso ? “attualmente molte donne con i propri ragazzi hanno
deciso di andare via dalla Calabria, ma purtroppo non esiste ancora una legge
che le tuteli adeguatamente. Oggi ci troviamo di fronte ad un evidente vulnus
normativo, giusto per intenderci, la mancata tutela nasce dal fatto che un
minore o anche la madre, pur dissociandosi dal contesto criminale non possono godere
di alcun beneficio non essendo di fatto inseriti nel programma di protezione.
Rispetto a questo andrebbe garantita una tutela adeguata all’importanza di una
scelta dalla valenza straordinaria che contribuisce a minare dal di dentro la
credibilità su cui fino ad oggi la realtà criminale aveva ha fatto leva. Oltre
a questo, vorrei porre l’accento su un’altra necessità. A Reggio abbiamo un
protocollo giudiziario distrettuale. Sarebbe molto importante che fosse
cristallizzato in una norma, perchè prevede dei circuiti comunicativi tra i
diversi uffici giudiziari”. Se le chiedessi di fare un bilancio e di
indicarmi una sua aspettativa per l’immediato futuro ? “ritengo che un
primo bilancio sia assolutamente positivo oggi testimoniato anche dal grande
successo del fiction, ma al di la di questo quotidianamente giungono decine di
lettere da parte di madri, di ragazzi, ma anche di padri detenuti che mi
chiedono di intervenire per dare ai propri figli la speranza di un futuro
diverso e se questo sta accadendo vuole dire che qualcosa nelle coscienze si è
mosso, si sta modificando. Ricevo poi tantissime richieste da parte di istituti
scolastici che vogliono utilizzare la pellicola per scopi didattici, segno che
il messaggio è stato colto nella sua essenza toccando le corde emotive della
società civile. Trovo sia poi un eccezionale segnale di speranza il fatto che
alcuni dei nostri ragazzi attualmente fuori regione, abbiano collaborato alla
sceneggiatura del film, dunque il mio auspicio è che tanti altri ragazzi, tante
donne, e perché no anche tanti padri oggi detenuti o latitanti possano,
guardando quelle immagini immedesimarsi, ritrovarsi e magari individuare la via
verso la speranza, la stessa che molti stanno già percorrendo”.
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