martedì 1 novembre 2016

11 MARZO 1978 DE'JA' VU DI TERRE CHE TREMANO





Dèjà vu, suona bene a pronunciarla questa parola, sarà per la cadenza francese che la rende dolce. La conosciamo tutti questa parolina che utilizziamo per indicare la strana sensazione che si prova durante un’esperienza che si avverte come già vissuta, già vista, una situazione che da qualche anno mi capita molto di sovente, assai più che in passato. Molti mi dicono che è normale, fisiologico perchè più passano gli anni più sono i ricordi a disposizione e forse sarà proprio per questo, forse anche perché il Dèjà vu richiede particolari stati d’animo, fatto sta che ci sono luoghi, volti, canzoni ma anche solo colori che più di altri mi suggeriscono situazioni già vissute.

Volendo indicare un colore che mi evoca storie già vissute, direi certamente il grigio, forse perchè mi ricorda l’ingresso di casa dove ci si sedeva davanti al braciere, di fronte a quella finestra da cui guardavo sempre il cielo che mi appariva il più delle volte plumbeo, quasi color quarzo, quel grigio non me lo sono mai tolto dalla mente e dagli occhi e oggi guardando quel cielo dalla stessa finestra ho la sensazione che tutto questo tempo non sia mai trascorso. Era l’11 marzo 1978, mio nonno era morto da meno di un mese e all’epoca la stretta osservanza del lutto non convcedeva sconti neanche ai bambini. Niente cartoni animati, niente tv che rimaneva rigorosamente spenta e poi quegli strani teli sugli specchi, che dovevi coprire in ossequio a non si sa quale arcaico retaggio. Quel pomeriggio faceva davvero freddo e noi come al solito ci riscaldavamo al braciere dentro il quale mi divertivo a lanciare bucce di mandarino. Ricordo ancora distintamente quel grigio ma ricordo soprattutto quel tonfo che ci fece sobbalzare, con la soglia della porta d’ingresso che prese a fluttuare e il pavimento che si sollevo come attraversato da un enorme serpente, non so dire quanto durò ma ricordo le urla di nonna, mamma e zia Ninì dalla cucina, la figura di mio padre che precipitatosi al piano terra cercò in vano di aprire la porta per portarci in salvo. Finito quel trambusto uscimmo e mio padre mi portò in braccio fino in piazza avvolto in una coperta, una di quelle che faceva la nonna, pesantissime e pungenti. In piazza si era già radunata una folla enorme, io guardavo in giro e vedevo fumo e polvere che si alzavano da tutte le parti, facce stravolte, pianti e gente che correva in direzioni diverse. Poi calata la sera, in piazza arrivarono tante auto parcheggiate alla meno peggio, la gente portava coperte, legna per accendere il fuoco e piatti fumanti e poi ancora bottiglie di vino, di grappa, anice, cordiale e vecchia romagna di cui ricordo ancora distintamente le etichette. Quella fu la prima notte passata in auto in un clima surreale e soprattutto in un freddo che prima non avevo mai provato. Il giorno dopo cercammo a più riprese di rientrare in casa, ma le scosse si alternavano anche violente con cadenza regolare, lo fecero per quasi due settimane. Capii solo a tanti anni di distanza che quelle giornate avevano cambiato per sempre il volto del paese, avevano riaperto ferite recenti, quelle lasciate dall’alluvione di sei anni prima. Erano molto diverse tra loro quelle ferite, c’erano quelle fisiche di un centro storico ormai martoriato e quelle nello spirito di una popolazione frastornata, avvilita, piena di paura e con la valigia ormai pronta sotto il letto, quasi quel terremoto fosse stato un segnale del destino o per molti uno straordinario pretesto per prendere la via della marina. Tra i ricordi di quei giorni non c’è però solo il grigio, c’è anche una buona parte di bianco. Appena tre giorni dopo quel violento sciame sismico (scoprii solo qualche anno fa consultando l’archivio storico dell’Arpacal che la scossa più violenta, appunto quella dell’11 marzo fu un 5.5 della scala Richter) prese a nevicare in modo assai copioso, quella fu la prima nevicata che ricordo in vita mia e per ovvie ragioni una di quelle che non potrò mai dimenticare. Nevicò così tanto che dopo 24 ore fu necessario l’intervento di una pala meccanica per aprire una pista che permettesse alle macchine di transitare. La neve ammassata sul belvedere della piazza aveva formato un cumulo altissimo che durò per diversi giorni. Oltre a quella montagna bianca su cui i bambini giocavano ricordo bene anche le lunghe stalattiti che scendevano dalle tegole. Poi arrivò la primavera a cancellare tutto, anche dalla mia mente, come se nulla fosse successo e invece dopo di allora, molte cose non furono più le stesse, quel terremoto aveva sancito l'inizio di molti cambiamenti che progressivamente avrebbero preso forma ridisegnando le nostre vite. 

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