lunedì 31 ottobre 2016

IL GRIGIO DELL'AUTUNNO E QUELLO STRANO SENSO DELLA VITA


La riflessione. Il grigio dell’autunno e lo strano senso della vita

È uggioso il tempo oggi, è una di quelle giornate in cui capisci che l’autunno comincia a farsi strada in modo più deciso, ed in giornate come questa mi capita spesso di pensare a volti, luoghi, gesti, storie e personaggi di una montagna dai colori ormai troppo sfocati, cose e persone talmente tanto familiari che mai, dico mai avrei pensato che un giorno il tempo avrebbe fatto svanire tutto come se nulla e nessuno dei protagonisti di allora fosse mai esistito. 

Sulla strada che sale verso i Campi c’è una fontana sotto un arco in pietra, uno dei tanti  lavori delle maestranze forestali, di fronte c’è una piccola pineta, se la superi a piedi saltando una staccionata lo scenario si apre a picco sulla fiumara Amendolea. Mi fermo spesso a guardare dalla sommità di quel dirupo, forse perché chiudendo gli occhi mi tornano alla mente alcune immagini che penso di non ricordare più. Per un bambino ogni scoperta è un passaggio importante, un piccolo traguardo che ti fa sentire già grande, e di scoperte  quassù ne ho fatte davvero tante  in un percorso che mi appariva già completo ed invece non era ancora neanche all’inizio. La domenica solitamente era dedicata alla caccia al cinghiale, partivamo da Bova su una Fiat Campagnola, io, mio padre, Don Ciccillo, Nino Casile, per tutti Nino il fontaniere e Nino Autelitano e una volta arrivati sui piani si passava da una casa in mezzo al bosco dove ad attenderci c’erano già di primo mattino, cugino Peppino e compare Leo con la capra sul fuoco. Giusto il tempo di un caffè e si ripartiva quasi subito verso Scrisà, un percorso tortuoso che dai Campi di Bova scendeva verso Casalnuovo d’Africo svoltando sulla, Portella di Ficara e Monte Scapparone, un percorso che attraversava rapidamente i territori di Bova, Africo e Bruzzano. Giunti sul posto ad attenderci quasi sempre c’era Ciccio di Cambì con i suoi baffetti stile Hitler che mi facevano morire dal ridere suscitando le ire di mio padre che mi redarguiva con uno sguardo che era tutto un programma. Ciccio di Cambì, al secolo Francesco Zavettieri era uno dei tanti volti di un Aspromonte che oggi non c’è più, uno di quei soggetti che come si usa dalle nostre parti vengono ancora oggi identificati col nome della località di nascita, e Cambì era una delle tante contrade montane alle spalle del centro abitato. Con lui ad attenderci c’era gente di Roghudi, Motticella, Samo, Africo e Staiti ed una volta scesi dall’auto erano baci, abbracci e strette di mano calorose, formalità ripetute di continuo in modo rituale. Finita la battuta di caccia per fare rientro in quella casa dove ritrovavi i cuochi seduti su due grossi ceppi di legno messi accanto al calderone dal quale proveniva un profumo che se ci penso lo sento ancora salire su per il naso. C’era cugino Peppino col suo consueto grembiule e sempre con le mani impegnate, in una il grosso mestolo, nell’altra un bastone di legno intagliato con disegni a cui non riuscivo a dare un significato preciso, ma ad essere sinceri tra le cose che attendevo di più in quelle domeniche, più dei risultati di novantesimo minuto, più della capra bollita con quei filamenti fastidiosi che ti rimanevano impigliati tra i denti, più di quelle pantomime fatte di baci, abbracci e sguardi che si incrociavano in segno di non si sa quale intesa, più di quelle facce che col passare del tempo divenivano quasi familiari pur non associandole a nomi e cognomi, c’erano alcune cose a cui non volevo proprio rinunciare e tra queste c’era la pastina in brodo che ti servivano dopo la capra. Ricordo che cugino Peppino sapendo quanto mi piacesse, contravveniva alle regole e non attendendo che tutti avessero finito la carne mi faceva un cenno  riempiendomi di nascosto il piatto. Quella pasta affogata in quel brodo densissimo era diventata un appuntamento irrinunciabile. Ripenso spesso a quei momenti ed a quei volti che inquadro sempre più a fatica. Sarà stato forse l’insopportabile senso di difficoltà nel ricordare alcuni particolare che oggi mi ha fatto riflettere sul significato della vita e con essa ovviamente anche della morte, ci ho pensato a lungo guardando da dietro i vetri della finestra di casa, immerso nel grigiore generale che ha voluto salutare il mese di ottobre. Alla vigilia della celebrazione dei defunti  ho pensato a quanto è curioso e triste allo stesso tempo l’idea che una volta lasciata la vita terrena e come se non si fosse mai esistiti, il tempo sfuma e piano piano cancella storie, volti e sentimenti, ed in questa storia come in tante altre è andata proprio così, il tempo è andato via di corsa, cancellando e ridisegnando ruoli, volti, gesti ed ambientazioni. L'uomo saggio sa che il tempo non può essere arginato e per questo a quei volti ed a quei gesti può soltanto cercare di assicurare il giusto ricambio perché la storia continui con volti diversi nei luoghi di sempre e perché tutto venga tramandato così da non perderne la memoria. In questa storia però di uomini saggi assistiti dalla fortuna ve ne sono stati davvero pochi ed ora a dettare le regole rimane solo il tempo, che di sconti non ne vuol sentire parlare e così di quei volti, di quei gesti, in quei luoghi si sta smarrendo anche il ricordo. Se continuo a tenere gli occhi chiusi, anche col fastidio di quella difficoltà, lo immagino di nuovo il sapore della capra, riesco ancora a rivederli quegli sguardi e soprattutto quei volti che anche dopo tanto tempo continuano ad accompagnarmi discreti e silenziosi.

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