martedì 1 settembre 2015

GLI ARCHI DI CHARACA

La  Marina vista da località Caracas. Foto di Pasquale Callea  

Ormai da qualche tempo, subito dopo l’alba, a volte anche prima, nell'attesa della stessa, mi piace scendere giù in campagna. A dire il vero non si tratta della solita campagna intesa nel senso stretto del termine, sarebbe più corretto chiamarla periferia del paese, un angolo discreto raggiungibile anche a piedi dove ho un pezzo di terra, un orticello ed una casetta ereditati da mio padre, un angolo di paradiso dove eclissarsi nei momenti di minore smalto. Su quel crinale che anticipa di poco il borgo, anche se non ci sono più gli animali di un tempo (i maiali, le galline, i tacchini, le capre, i colombi ed i conigli), grazie alla solerzia di mia moglie resistono ancora pomodori, zucchine, melanzane e alberi da frutto. 

Ci vado spesso, quasi ogni giorno, un po' per godere dell’aria frizzante del mattino, un po' perché quel posto mi ricorda l’infanzia, le vendemmie, il pane caldo, le mangiate con gli amici, le frittole sotto la neve, la raccolta dei fichi e le spine dei fichi d’india che mi tormentavano per giorni. L’altro ieri ero là, come al solito al centro dell’orto, seduto su una sedia, nell’attesa che i solchi dei pomodori si riempissero d’acqua e  quasi a volermi auto convincere della necessità di unire tradizione e innovazione, controllavo la rassegna stampa sul mio i-pad, quando all’improvviso mi sono tornate in mente alcune storie, di quelle che proprio in quell’orto mi raccontavano quando ero piccolo e si andava a raccogliere le noci e le mandorle (a quei tempi, eravamo sul finire degli anni settanta, c’erano anche quelle a fare compagnia ai pomodori). Non so perché ma, tra le storie che ho ricordato, me ne è venuta in mente una in particolare, sarà stata la luce fioca di un’alba ancora stentata, sarà stata la foschia che rendeva la marina un po' più lontana, ma di colpo ho ripensato alla storia degli archi di Chàraca. Ricordo bene che ogni volta che risentivo questa storia, mi veniva la pelle d’oca. Mio padre raccontava ed il nastro si riavvolgeva fino a tornare all’inverno del 1940. In quegli anni mio padre era uno di tanti bambini di Bova che viveva con limitata spensieratezza la vigilia di un conflitto mondiale di cui nessuno in quel momento avrebbe potuto immaginare le proporzioni ed i contorni inquietanti, tantomeno in un Aspromonte all’epoca praticamente isolato dal resto del mondo, in una prima metà del secolo scorso che nel Sud del Sud d’Italia aveva un sapore più amaro che altrove, specie per i più piccoli, costretti a crescere troppo in fretta. All’epoca Bova era collegato alla marina da un viottolo in selciato percorribile a dorso di mulo. Mio nonno era tornato dall’esperienza americana giusto in tempo per evitarsi la crisi del ’29, diciamo che appena qualche annetto prima, verso la metà degli anni venti aveva deciso di fare rientro in patria, dopo circa un mese di nave era sbarcato pieno di soldi e pieno di speranze, i primi li aveva spesi per comprare casa e diverse proprietà che gli avrebbero garantito una vita tutto sommato agiata, le seconde si erano esaurite davanti casa di mia nonna, ragazza di belle speranze, più giovane di lui di ben diciotto anni.
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Vista la situazione, soprattutto quella patrimoniale, il matrimonio non era mica evitabile, anche perchè nonno Giovanni, anche con qualche annetto in più, avrebbe garantito una vita dignitosa, quella che mia nonna, a dire di suo padre, meritava forte della sua qualifica di quarta elementare, mica uno scherzo per i tempi. Così dopo il matrimonio nel 1927 e dopo la nascita di zia Pepè e zia Ninì come usavano chiamarle in famiglia, nel 1933 arrivava anche il terzogenito, mio padre. Insomma, una famigliola che i miei nonni portavano avanti senza particolari problemi con il lavoro in campagna e la piccola osteria gestita da mia nonna, dove oltre a bere vino si giocava a carte intercalando qualche bestemmia e a volte qualche rissa, giusto per stare allegri e sfoderare i coltelli per un uso diverso da quello domestico. Una volta a settimana mio nonno col suo asino scendeva giù in marina a fare provviste per la bottega del vino, viveri, generi di prima necessità e bibite. Si partiva allo scoccare della mezzanotte o a volte anche un po prima e a mio padre, nonostante non avesse ancora compiuto otto anni non era assolutamente risparmiata la levataccia. Mia nonna cercava di allungargli il sonno quanto più possibile, almeno fino al fatidico urlo rituale: “Maria, chiama a Cicciarèddu ch’è tardu”. Con gli occhi semi chiusi, quasi in dormi veglia si partiva alla volta della marina e giunti quasi a metà strada, nel buio di una notte quasi solo a volte rischiarata dalla luna, arrivava il momento che mio padre temeva più di ogni altra cosa, si avvicinava la famigerata tappa di Chàraca, un luogo che per i più piccoli era un vero spauracchio, un angolo buio su cui aleggiavano storie infinite di fantasmi e spiriti di ogni genere. Chàraca era una contrada rurale quasi a metà strada tra Bova e la marina, dove, superate alcune arcate naturali, la visuale spaziava sulla pianura e sul mare. Ricordo che mio padre mi raccontava di come, una volta giunti sul posto, stringesse più che la cintola di mio nonno, che di sicuro non avrebbe gradito le effusioni, le bisacce che scendevano sui fianchi dell’asino. Una sera, in mezzo alla nebbia, seduto su una roccia, comparve la sagoma di un uomo che mio nonno giurò di non avere visto, e mio padre dopo avere chiesto se si fosse accorto di quella figura inquietante, per paura di essere rimproverato pianse in silenzio strozzando un urlo in gola. Non seppe mai se quello che vide fosse in realtà frutto di una suggestione o qualche povero cristo avvilito dalla fatica e consumato dal freddo, probabilmente la seconda o forse nessuna delle due, ma gli occhi lucidi di mio padre nel ricordare l’episodio, non credo fossero tanto per il ricordo di quella paura, quanto per tutto il resto, per il ricordo di un’epoca assai lontana nel tempo, ma assai vicina nella mente di chi l’aveva vissuta con gli occhi di un bambino, la figura di suo padre, le notti insonni e le privazioni di una vita che non sapeva fare sconti, neanche ai più piccoli. Il sole sta salendo ormai da un pezzo, i solchi dei pomodori sono pieni fino all’orlo, l’I-Pad è ancora acceso anche se ormai da un pezzo lo fisso senza focalizzarlo. Se mi giro, alle spalle vedo la marina, vedo quel crinale, quella sella naturale da cui ci si tuffa a picco sullo Ionio e immagino quello che rimane di Chàraca, non ci passo da più di vent’anni e già allora era preda di rovi e sterpaglie, immagino cosa rimane di quelle storie, di quella gente che c’è passata per secoli e di quella che ormai da tanto tempo non ci passa più. Mi hanno detto che l’anno scorso, il percorso è stato rispolverato per un trekking, forse sarà quella la nuova destinazione del tragitto, forse ma solo forse, qualcuno passando ancora su quella strada, ricorderà ancora quella figura seduta su quel masso, chissà quanti l’avranno vista, chissà soprattutto quanti, in realtà, avranno il tempo e la pazienza di farsi raccontare ancora certe storie.  

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