E rimettiamoci, nell’accezione più ampia del termine, stante la clausura forzata, nelle mani, anzi, ai tasti del Computer, unica via possibile per dare sfogo ai pensieri. A dire il vero il Pc, virus o non virus, rimane per me e per molti, sempre uno dei migliori alleati utili a trasporre pensieri, a fissare sensazioni, a dare forma alle idee.
Non è solo uno schermo quello del nostro Computer piuttosto che dell’IPad o del cellulare, è qualcosa di più, è come se in quegli schermi, in quei cristalli liquidi, su quelle tastiere si materializzasse un prolungamento di corpo, anima e cervello. E allora rimettiamoci all’opera, davanti al camino acceso, utile per una volta non solo a fare compagnia, ma anche a scaldare in questo uggioso, freddo e surreale pomeriggio di fine inverno. Sfuggiremo questa condizione onirica, questo è certo, le riprenderemo in mano le nostre vite, non so come, non so quando ma certamente ci riapproprieremo di una quotidianità che oggi, dopo appena pochi giorni di assenza ci manca già moltissimo, e non perché in realtà manchino i gesti, forse molto di più per quella condizione psicologica generata da ogni imposizione, da ogni forma di paura dilagante. Si tratta di un’assenza che ci soffoca, claustrofobica e allucinante che ci pone davanti a scenari da film ambientati in ere post atomiche. È come trovarsi di colpo sbalzati, da una quotidianità sonnolenta al set di Med Max piuttosto che di The Day After Tomorrow. Ricordate le immagini della fuga da una New York coperta da metri di neve, dove orde di lupi andavano in cerca di cibo ? ecco le ho ritrovate quelle immagini nei fotogrammi degli assembramenti alla Stazione Garibaldi a Milano, le ho ritrovate nei volti straniti della gente in fuga da una regione ormai off limits. Passerà l’ondata di piena, non senza conseguenze, non velocemente questo è bene dirselo con franchezza, senza teorie edulcorate e senza catastrofismi, con un pizzico di sano realismo che in questo caso è quantomai necessario, non fosse che per approcciare quello che verrà con la giusta dose di rassegnazione e determinazione, senza scoramenti, senza tentennamenti, con fiducia e precauzione. E così col passare dei giorni, si riducono velocemente i contatti umani, mentre proliferano in maniera esponenziale quelli virtuali, con le piattaforme dei Social prese d’assalto che diventano in questa fase, non più solo terreno di confronto ma per una volta vero e unico spazio di vita e di interazione possibile. Siamo duri di corteccia quassù in Aspromonte, avvezzi a camminare nella nebbia, abituati a sfoderare un senso di orientamento che negli anni è diventato segno distintivo, caratteristica endemica della gente di montagna.
Ci camminiamo da una vita nella nebbia quassù, senza sapere cosa ci si parerà davanti. Nascere e crescere in montagna significa abituarsi all’imponderabile, convivere con la forza della natura e con i suoi malumori, in buona sostanza significa imparare a vivere con poche certezze, senza sapere se quello che hai oggi lo ritroverai domani. Bene, ora nella nebbia ci siamo tutti, immersi in una cortina densa che si attraversa a fatica e ci consegna un senso di smarrimento cui ancora molti non hanno avuto il tempo di abituarsi. Con lo smarrimento si convive, non ignorandolo, accogliendolo ed accettandolo con la giusta dose di pazienza, mettendosi seduti ad attendere come il pastore che aspetta che passi la piena seduto su una roccia, in attesa di far passare il gregge sull’altra sponda. È giunta dunque, al netto da qualsiasi accostamento di alvariana memoria, l’ora dell’attesa e della pazienza, il momento da dedicare alla riflessione sul nostro stare al mondo, sulle nostre paure, e tanto vale dunque sforzarsi di trovare in ogni problema qualche opportunità. Pensavo ad esempio a quanto certe situazioni possano cambiare rapidamente le nostre prospettive, sulla gente, sui fatti, sulle cose e sui luoghi. Ecco parlerei proprio dai luoghi, quelli identitari, solitari, vituperati e tristi che si animano solo nelle sere d’estate quando si cerca riparo dalla calura della costa, quando si sale su spinti dall’afa e dall’inerzia. Parlerei di quei luoghi che oggi, alla luce di questa condizione paradossale possono assumere ed in parte lo stanno già facendo, un nuovo ruolo sociale, diventando valvola di sfogo, polmone utile a regalare una normalità altrove ormai quasi dappertutto preclusa. Riscoprire le periferie, la natura, piuttosto che i centri del nostro entroterra, quelli che consentono di vivere lontano dagli assembramenti, sembra pratica necessaria a far convivere sicurezza e voglia di normalità, medicina utile a combattere una claustrofobia ed un’ansia che crescono col passare delle ore e dei giorni. È assai curioso osservare come possa cambiare rapidamente una prospettiva conferendo ad un luogo un significato differente, facendolo passare da marginale a necessario, conferendogli il crisma del luogo benedetto, dove ci si immerge come si fa con la mano nell’acquasantiera. Così può capitare che di colpo si passi da una visione di vuoto, di manchevolezza, di limitatezza, ad un’altra di benevola sicurezza, di protezione, con luoghi marginali che diventano porti franchi in cui approdare. In fondo lo dice la storia, quella di queste coste, dove la malaria spinse su per le colline e le montagne migliaia di persone che nell’aria rarefatta trovarono occasione di vita, edificando quei centri che ancora oggi, a distanza di secoli contemplano il mare da lontano. In fondo è solo la storia che si ripete ricordandoci un moto circolare da cui non si sfugge. Riscopriamo dunque il gusto della lentezza, viviamo la solitudine come opportunità e non come limitazione, cogliamo gli odori, i profumi, i paesaggi, con un ritrovato senso del tutto, gustandoli fino in fondo come unica cosa possibile, e magari alla fine di tutto, quando l’onda sarà passata, quando il gregge sarà al sicuro sull’altra sponda avremo ritrovato qualcosa che avevamo perso, perché ogni medaglia ha il suo rovescio ed ogni luogo il suo senso da riscoprire.
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