martedì 28 aprile 2015

UN GENOCIDIO GRECANICO INCOMPIUTO



Quando parli di Calabria greca, parli anche di luoghi della memoria, di centri e di storie abbandonate per sempre. È questione di punti di vista: c’è chi in un luogo abbandonato vede la fine di un percorso, interrotto di colpo e ripreso chissà dove, c’è invece chi interpreta a modo proprio l’abbandono, quasi come un’inconsueta opera di  conservazione, un tentativo di fermare il tempo cristallizzandolo ad un determinato periodo e regalandolo a chi verrà. L’area grecanica ci parla, tra le altre cose, anche di luoghi della memoria ed uno in particolare sembra testimoniare la sofferenza della gente greca di Calabria delineandone un profilo ben definito. 
La nostra tappa è la vecchia Roghudi, quella rimasta sui monti dopo l’alluvione del 1972, una terra misteriosa, affascinante, solitaria che va indagata ed analizzata attraverso i luoghi, i paesaggi, i colori, i profumi ma soprattutto attraverso la sua gente. Terra di elfi, di draghi, di Naradi, terra di storie antiche che profumano di Magna Grecia. Roghudi  oggi rimane immobile in un tempo che all’ombra del monte Cavallo sembra essersi fermato, come testimoniano le case rimaste la con gli oggetti della vita quotidiana lasciati a raccontarci di una fuga precipitosa e inattesa. Proseguendo da Bova verso i suoi piani a circa 1300 metri di quota sei costretto a fermarti ad osservare – catturato da un paesaggio assai suggestivo che a guardarlo dall’alto ti regala gole profonde, casolari abbandonati, macchia mediterranea che si alterna a scenari quasi alpestri – e giù al centro del letto del fiume, su di uno sperone di roccia, c’è il vecchio paese che sembra sospeso nel vuoto in perenne e precario equilibrio. Roghudi oggi è meta irrinunciabile per gli amanti del trekking, ma anche per chi vuole approfondire  la storia di questo borgo abbandonato e soprattutto della sua gente, quella che nella maggior parte dei casi ha lasciato la propria casa e la propria storia a malincuore in favore di una marina sempre più caotica ed imbruttita. Spettrale, solitario, arso e scosceso, è questa la cartolina attuale di Roghudi, un centro che a guardarlo da lontano appare davvero come una sfida dell’uomo alla natura. Siamo a 527 metri di quota, su una rupe solcata da due corsi d’acqua. Osservando le case, aggrappate alla roccia a picco sul letto del fiume, appare subito chiara la natura di questo popolo protagonista di un copione recitato per secoli sempre sullo stesso palcoscenico. Monti innevati, roccia tagliente e come colonna sonora, il costante  rumore dell’acqua nel suo moto perpetuo che d’inverno diventa frastuono assordante. Non è facile capire Roghudi, neanche per chi con questa gente, ci ha vissuto a braccetto per una vita. Per capire fino in fondo i fenomeni della storia bisogna contestualizzarli, analizzando i contesti che li hanno partoriti e per Roghudi l’ora del cambiamento scatta nel 1972, data per molti nefasta, per altri invece quanto mai provvidenziale. Un’alluvione, una delle tante che nel tempo – assieme a terremoti ed altre catastrofi che hanno fatto compagnia all’Aspromonte, soprattutto quello orientale – offre il pretesto per lasciare una realtà di montagna regalandosi il miraggio del progresso, una possibilità di riscatto sociale, da molti neanche mai pensata, da altri invece spasmodicamente attesa. Che per molti il 1972 sia stata una data infausta lo si intuisce da tante cose, basta guardare il paese anche da lontano e quello che salta subito agli occhi, assieme all’asprezza dei luoghi, sono senza dubbio le tantissime costruzioni in cemento armato e mattoni forati ancora non completate e subito abbandonate, elemento, quest’ultimo, che sottoscrive in modo chiaro la volontà di molti di non spostarsi da quei luoghi. Inizia comunque l’esodo, viene individuato un nuovo sito per la ricostruzione, su di un fazzoletto di terra a ridosso del Comune di Melito Porto Salvo in riva al mare e a quasi cinquant’anni di distanza è lecito chiedersi cosa sia successo ad una comunità di pastori ed agricoltori catapultata dall’Aspromonte allo Ionio. È una violenza morale e fisica quella perpetrata ai danni della gente di Roghudi, dietro le case confortevoli, dietro il miraggio del progresso, dietro la speranza di lasciarsi alle spalle una condizione di vita dura, c’è infatti la sofferenza di chi il cambiamento, forse, non lo voleva o almeno non in quel modo, non in riva al mare. Oggi Roghudi è un agglomerato di case tutte uguali, con lastrico solare e senza balconi. A testimoniare l’antica origine greca rimane la toponomastica bilingue di recente fattura, quasi innaturale in uno scenario che di magno greco conserva quasi nulla, tra asfalto, cemento e gas di scarico delle auto che sfrecciano sull’attigua statale 106. Oltre a questo c’è però anche dell’altro: ci sono i giovani, il cui lessico diventa sempre più ibrido con una cadenza stampata nel dna e una parlata quasi omologata a quella dei nuovi vicini di casa, giovani che distingui chiaramente dagli altri grazie a quei tratti somatici che il tempo non riesce a cancellare. Poi ci sono gli anziani a ricordarci sicuramente più della toponomastica l’origine di questo popolo, col loro idioma e soprattutto con quella tristezza che il tempo non riesce a cancellare.

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