Quando rimani solo, spesso
fisicamente, altre volte nell’animo, il tempo per pensare è tanto,
cerchi allora di impegnarlo, di non riflettere, di convincerti che
l’incedere della vita debba necessariamente prendere il sopravvento e poi per fortuna è quasi sempre così.
Ma la mente si sa è fervida di
ricordi, fatti, ambientazioni, facce, momenti, flash di un passato
recente, ma, il più delle volte lontano che si riaccendono in modo incontrollabile. Guardi fuori dalla finestra di un
anonimo condominio milanese nei pressi di via Ripamonti e vedi luci, auto, gente
che corre veloce, senti suoni di clacson, tutto in un mondo che cerchi
di sentire tuo, ma piano piano ti convinci che non ti appartiene, allora
apri la finestra dell’anima alla ricerca di quello che ti è sempre
appartenuto ma che, oggi, senti rivivere solo nella mente.
Di persone, di cose, di situazioni
rimane poco, tutto spazzato via dall’incalzare impietoso di un tempo
per molti prodigo di luci, per altri avaro di concessioni. L’autunno,
aspettando il duemilaquindici, procede in modo quasi anonimo e in attesa
del grande inverno la mente corre a qualcosa che negli anni è rimasta
impressa più di altre, forse perché indipendente dalla volontà umana,
forse perché se hai la certezza che certe cose dell’uomo non si
ripeteranno più, sai anche che qualcuna legata alla natura ti lascia la
speranza di poterla gustare ancora, con occhi diversi, non più da
ragazzo, con occhi di chi della vita ha provato anche il lato più amaro.
Chiudi gli occhi e per un attimo tutte
quelle macchine, tutti quei rumori, tutta quella gente, scompaiono e
nella mente compare l’Aspromonte pieno dei suoi colori, il verde dei
boschi di leccio e castagno, il giallo della ginestra, il grigio della
nebbia, il bianco della neve e rivedi le interminabili serate
passate davanti al camino acceso, ti sembra di risentire il profumo
della legna che arde.
Era il 30 Gennaio 1999, lo ricordo bene,
era il primo compleanno di papà che non potevo più festeggiare, lui era
andato via troppo presto, la primavera precedente, in un caldo
pomeriggio romano, lontano da quelle montagne che amava tanto. Pensavo
proprio a questo in quella sera di gennaio, sulla mia 500 color grigio,
in un angolo della piazza ad ascoltare musica e a riscaldarmi le mani
accendendo di tanto in tanto il motore. L’aria fredda e i vetri
appannati mi ricordavano che da quasi vent’anni i tipici inverni
aspromontani arrivavano sempre più a singhiozzo. Dieci, quindici
centimetri di neve, il cielo, su, a circa novecento metri di quota, li
continuava a regalare, ma quelle stalattiti che scendevano dalle tegole
come lunghe e splendide sculture naturali, stentavano sempre più a
ricomparire. Il clima ormai da qualche giorno era freddo, molto freddo,
da circa una settimana il termometro non saliva sopra i tre gradi
neanche di giorno.
Chi in Aspromonte è nato e cresciuto ha
imparato a conoscere il tempo, da queste parti incredibilmente mutevole e
sa che il levante da queste parti è sempre prodigo di sorprese.
Compare Mico i suoi ottant’anni li
portava davvero bene, lui di inverni ne aveva visti tanti e con le
nuvole sembrava parlarci. Niente giubbotto imbottito, solo una giacca
sulle spalle per fare rientro a casa nel gelo della sera. Mi bussa al
finestrino e mi dice di rientrare che il tempo minaccia. «Compare Mico,
cosa dite, la fa la neve o ci prende ancora in giro?» «Figghiu si rriva
ddu tempu chi si preparau a levanti faci tanta la nivi chi non scuagghia
mancu pe aprili!».
Lo saluto e continuo ad ascoltare la
radio, l’orologio digitale della 500 segna le 18:33, e i primi timidi
fiocchi iniziano a posarsi quasi con timore sul parabrezza, d’un tratto
un tuono sordo annuncia quella che sarà una delle nevicate più copiose
dell’ultimo ventennio. In un attimo il paesaggio cambia colore. Salgo di
corsa a casa, trovo mia madre davanti al camino, poverina, intenta
com’era a leggere, non si era accorta della nevicata appena iniziata.
Attizziamo il fuoco e guardiamo fuori dalla finestra, come facevamo
sempre, prima di salire al piano di sopra per la nanna quando ero
bambino. Sono le quattro del mattino e la neve continua a cadere senza
sosta ormai da otto ore. Non riesco a chiudere occhio, eccitato come un
bimbo, come quando aspettavo che papà mi portasse al campo sportivo a
correre a perdifiato voltandomi indietro a guardare le mie stesse
impronte e una volta esausto, mi fermavo a preparare il mio bel pupazzo
di neve.
All’alba l’Aspromonte mostra il suo lato
immacolato, al suolo ci sono oltre 60 cm di neve fresca. Sento il
rumore della pala meccanica, è quella del Comune che cerca di aprire una
pista carrabile. Mi vesto di corsa per andare non so neanche io dove,
la porta è bloccata, apro la finestra e mi calo lentamente facendo leva
sulle braccia, scivolando lungo la schiena, poi mi lascio andare e
sprofondo nella neve, sento mia madre che, quasi per inerzia e per
dovere, accenna ad un rimprovero, allora penso: è proprio come quando
ero piccolo! Ai bordi delle strade, in un silenzio surreale, la neve
ammassata dal mezzo meccanico sfiora il metro d’altezza e quindici
giorni dopo, complice un periodo incredibilmente freddo, non è ancora
scesa sotto la soglia del mezzo metro.
La neve scomparirà completamente dal
centro abitato solo i primi giorni di marzo. Alle spalle del paese, su
in montagna, sarà la metà aprile, proprio come aveva detto compare Mico.
D’un tratto un clacson mi sveglia, lo
sguardo torna sulla via Ripamonti angolo piazza Quaranta, il clacson è
quello del tram, è il numero 24, quello che porta verso Pieve Emanuele.
Lo sguardo torna sulla città, ormai da tempo non è più la Milano da
bere, o almeno non per tutti, quella è sfumata, negli occhi c’è solo la
cartolina di una metropoli che bonaria e con austero
distacco si mostra disponibile ad accogliere tutti con il loro carico
di ricordi e aspettative.
Negli occhi ci sono quelle luci che corrono veloci, nel naso però mi sembra di avvertire ancora l’odore della legna che arde
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