“Gli Africoti odiano il mare.
Un mare quasi sull’uscio di casa, blu carico, con bordi celeste Madonna e
striature vinose”. Corrado Staiano, nel suo “Africo,edizioni Einaudi
1979”, traccia in modo opinabile ma a tratti veritiero il profilo di una
realtà come quella di Africo, fatta di gente dura, dagli occhi neri e
profondi, dalla pelle del viso bruciata dal sole e consumata dal gelo,
gente in cerca di riscatto, in preda ad un malinteso senso di rivalsa
sociale.
Corrado Staiano 35 anni fa e Gioacchino Criaco oggi, ci parlano di una parabola di amore e odio, dolore e morte, tristezza e disperazione per un passato abbandonato, mai del tutto, sugli oscuri e impervi anfratti aspromontani, ci parlano di un passato sofferente e di un presente fatto di spiagge bianchissime, mare cristallino, nuove frontiere del crimine organizzato e bagliori di speranza che partono proprio dal lavoro e dall’impegno di Criaco come da quello dei tanti giovani che proprio sull’Aspromonte, in quel vecchio sito abbandonato, si spendono per il rilancio della propria terra e per il recupero di quei ruderi che hanno saputo resistere agli attacchi del tempo. Con loro c’è anche chi pensa ad un giornale, dedicato alla montagna ed a tutto quello che attorno ad essa si agita, una nuova realtà dell’informazione fatta di giovani professionisti, nata dall’unione di tante esperienze e di tante professionalità. “Sugnu africotu” dice con un malcelato compiacimento Gianni Favasuli poeta e cantore della sua terra, in uno dei suoi tanti componimenti, “lupu di muntagna, nu coriu duru comu pigna”. Gioacchino Criaco lo sa bene cosa vuol dire essere “Africotu”, come sa bene che ripercorrere la storia della sua gente vuole dire tornare indietro di oltre sessant’anni, proprio su quelle montagne di cui parla Favasuli, nel dedalo di gole impenetrabili rischiarate dal biancore delle fiumare. Certo Africo nuovo è un’altra storia, fatta di cemento, omologazione e speranze di progresso infrante spesso sulle onde dello Ionio o peggio ancora nelle aule dei tribunale. È la vecchia Africo, così come si apprende dal racconto dei più anziani, a riservare invece tante sorprese, a suscitare ancor di più tanti interrogativi. È un viaggio alla scoperta di civiltà perdute, di memorie storiche legate ad una data che per questa gente rimane nel bene e nel male incancellabile.
Ci pensa una delle tante alluvioni
d’Aspromonte, quella del 1951, qualcuno, polemicamente, la chiama
l’alluvione del pretesto, a ricordare agli africoti il loro particolare
appuntamento col destino, decretando il trasferimento al mare. Sono
trascorsi tanti, forse troppi decenni da allora, e della vecchia Africo
rimangono pochi ruderi, da qualche anno riportati alla luce da quei
giovani cui facevo riferimento, umili, volenterosi, con gli stessi
tratti somatici di chi quei posti li aveva lasciati in preda a chissà
quale miraggio e chissà con quali e quanti sentimenti contrastanti di
speranza e smarrimento. Loro sono tornati, ma forse in realtà non erano
mai andati via, mossi da un inconscio e viscerale legame con la terra
che sentono propria più di quell’anonima striscia di spiaggia che li ha
visti nascere e li ha a malincuore accolti. Quei ruderi rimangono a
testimoniare il contrasto tra una resa incondizionata e la testarda
volontà di riaffermare la propria storia. Oggi il tragitto dalla
vecchia Africo alla sua frazione Casalnuovo, fino a qualche anno fa
riservato agli appassionati del trekking, grazie a Criaco e a quelli
come lui, è anche per chi vuole capire l’intimo legame che lega questa
gente alla propria terra. Tra i tanti commenti e recensioni che hanno
fatto seguito all’uscita del film di Munzi nelle sale, uno su tutti mi è
sembrato ricorrente, la difficoltà, per chi non conosce bene i contesti
di riferimento, di interpretare i tantissimi messaggi indiretti,
lanciati da personaggi, ambientazioni, paesaggi e circostanze figlie di
un Mondo che, se lo conosci ti fa riflettere, se non lo conosci non
riesci nemmeno a percepirne le vibrazioni. Salendo da queste parti,
capisci molto meglio il messaggio che Gioacchino Criaco e il regista
hanno voluto lanciare al Mondo, un messaggio fatto di simbolismi,
movenze, dettagli, ambientazioni e riferimenti ad un mondo arcaico di
non facile comprensione. Salendo su queste montagne, molti aspetti
ancora poco chiari, prendono pian piano forma e la montagna sembra
parlare, rivelandoti, sempre con parsimonia molti dei suoi segreti. Una
volta raggiunti i Campi di Bova a 1300 metri di quota inizi la discesa
che dopo pochi chilometri ti porta ai 940 metri di località Carrà, dove
si trovano poche case costruite dopo l’alluvione e abitate fino ai primi
anni sessanta. Carrà, per la gente di Africo “U Carrùsu” è in un luogo
inaccessibile, coperto da foreste di querce e castagni. Proseguiamo
verso il greto del fiume, ed ecco che compare di colpo Africo, quasi
confuso tra la vegetazione. Le costruzioni formano un corpo unico con la
montagna. Siamo a 690 metri di quota, in uno dei luoghi più isolati
dell’intero Aspromonte.
La realtà di Africo coincide con la
storia di uomini, donne, anziani e bambini, casolari e ricoveri per le
bestie, vette innevate e gole profondissime. Dai vecchi ruderi ci
trasferiamo alla Mingioia, dove esiste una caratteristica chiesetta di
epoca basiliana dedicata al culto di San Leo protettore del paese.
Riprendiamo imboccando una pista appena percorribile a piedi che scende
rapidamente fino a giungere i piedi di un torrente. Risalendo l’altro
versante della montagna si giunge ai 755 metri della frazione
Casalnuovo, un’altro piccolo nucleo abitato che guarda Africo dal
versante opposto della montagna. A Casalnuovo c’è ancora qualche
pastore, il centro, anche se quasi del tutto abbandonato si conserva
comunque meglio rispetto ad Africo, anche perché fino a circa venti anni
fa era discretamente abitato, fino ai primi anni novanta c’era
addirittura un piccolo ufficio postale.
Le prime sconcertanti immagini della
realtà di Africo sono quelle regalate al Mondo dagli scatti di Tino
Petrelli, le ultime in ordine di tempo sono quelle suggestive
riservateci dal certosino lavoro di Vladan Radovid per Anime Nere, ad
oltre ottant’anni di distanza, i fotogrammi sono quelli di una vita
vissuta in bilico tra l’Aspromonte e il mare, tra il presente ed un
passato che, come sembrano voler suggerire le Anime Nere di Munzi, non
vuole scomparire. “Sugnu africotu, lupu di montagna” dice una poesia che
sembra quasi una nenia, e sembra dirlo anche la trasposizione
cinematografica del lavoro di Gioacchino Criaco, proprio lui, che come
pochi riesce a interpretare la sofferenza e la dignità di questa gente,
col cuore di chi la storia di Africo l’ha vissuta dal di dentro, con la
consapevolezza di chi sa che una nuova storia per Africo forse si sta
già scrivendo
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