martedì 30 settembre 2014

IN BILICO TRA L'ASPROMONTE ED IL MARE


Da Corrado Staiano alle Anime Nere di Criaco, 63 anni di storia in bilico tra l’Aspromonte ed il mare

“Gli Africoti odiano il mare. Un mare quasi sull’uscio di casa, blu carico, con bordi celeste Madonna e striature vinose”. Corrado Staiano, nel suo “Africo,edizioni Einaudi 1979”, traccia in modo opinabile ma a tratti veritiero il profilo di una realtà come quella di Africo, fatta di gente dura,  dagli occhi neri e profondi, dalla pelle del viso bruciata dal sole e consumata dal gelo, gente in cerca di riscatto, in preda ad un malinteso senso di rivalsa sociale.


Corrado Staiano 35 anni fa e Gioacchino Criaco oggi, ci parlano di una parabola di amore e odio, dolore e morte, tristezza e disperazione per un passato abbandonato,  mai del tutto, sugli oscuri e impervi anfratti aspromontani, ci parlano di un passato sofferente e di un  presente fatto di spiagge bianchissime, mare cristallino, nuove frontiere del crimine organizzato e bagliori di speranza che partono proprio dal lavoro e dall’impegno di Criaco come da quello dei tanti giovani che proprio sull’Aspromonte, in quel vecchio sito abbandonato, si spendono per il rilancio della propria terra e per il recupero di quei ruderi che hanno saputo resistere agli attacchi del tempo. Con loro c’è anche chi pensa ad un giornale, dedicato alla montagna ed a tutto quello che attorno ad essa si agita, una nuova realtà dell’informazione fatta di giovani professionisti, nata dall’unione di tante esperienze e di tante professionalità. “Sugnu africotu”  dice con un malcelato compiacimento Gianni Favasuli poeta e cantore della sua terra, in uno dei suoi tanti componimenti, “lupu di muntagna, nu coriu duru comu pigna”. Gioacchino Criaco lo sa bene cosa vuol dire essere “Africotu”, come sa bene che ripercorrere la storia della sua gente vuole dire tornare indietro di oltre sessant’anni, proprio su quelle montagne di cui parla Favasuli, nel dedalo di gole impenetrabili rischiarate dal biancore delle fiumare. Certo Africo nuovo è un’altra storia, fatta di cemento, omologazione e speranze di progresso infrante spesso sulle onde dello Ionio o peggio ancora nelle aule dei tribunale. È  la vecchia Africo, così come si apprende dal racconto dei più anziani, a riservare invece tante sorprese, a suscitare ancor di più tanti interrogativi. È un viaggio alla scoperta di civiltà perdute, di memorie storiche legate ad una data che per questa gente rimane nel bene e nel male incancellabile.

Ci pensa una delle tante alluvioni d’Aspromonte, quella del 1951, qualcuno, polemicamente, la chiama l’alluvione del pretesto, a ricordare agli africoti il loro particolare appuntamento col destino, decretando il trasferimento al mare. Sono trascorsi tanti, forse troppi decenni da allora, e della vecchia Africo rimangono pochi ruderi, da qualche anno riportati alla luce da quei giovani cui facevo riferimento, umili, volenterosi, con gli stessi tratti somatici di chi quei posti li aveva lasciati in preda a chissà quale miraggio e chissà con quali e quanti sentimenti contrastanti di speranza e smarrimento. Loro sono tornati, ma forse in realtà non erano mai andati via,  mossi da un inconscio e viscerale legame con la terra che sentono propria più di quell’anonima striscia di spiaggia che li ha visti nascere e li ha a malincuore accolti. Quei ruderi rimangono a testimoniare il contrasto tra una resa incondizionata e la testarda volontà di riaffermare la propria storia. Oggi il tragitto dalla vecchia  Africo alla sua frazione Casalnuovo, fino a qualche anno fa riservato agli appassionati del trekking, grazie a Criaco e a quelli come lui, è anche per chi vuole capire l’intimo legame che lega questa gente alla propria terra. Tra i tanti commenti e recensioni che hanno fatto seguito all’uscita del film di Munzi nelle sale, uno su tutti mi è sembrato ricorrente, la difficoltà, per chi non conosce bene i contesti di riferimento, di interpretare i tantissimi messaggi indiretti, lanciati da personaggi, ambientazioni, paesaggi e circostanze figlie di un Mondo che, se lo conosci ti fa riflettere, se non lo conosci non riesci nemmeno a percepirne le vibrazioni. Salendo da queste parti, capisci molto meglio il messaggio che Gioacchino Criaco e il regista hanno voluto lanciare al Mondo, un messaggio fatto di simbolismi, movenze, dettagli, ambientazioni e riferimenti ad un mondo arcaico di non facile comprensione. Salendo su queste montagne, molti aspetti ancora poco chiari, prendono pian piano forma e la montagna sembra parlare, rivelandoti, sempre con parsimonia molti dei suoi segreti. Una volta raggiunti i Campi di Bova a 1300 metri di quota  inizi la discesa che dopo pochi chilometri ti porta ai 940 metri di località Carrà, dove si trovano poche case costruite dopo l’alluvione e abitate fino ai primi anni sessanta. Carrà, per la gente di Africo “U Carrùsu” è in un luogo inaccessibile, coperto da foreste di querce e castagni. Proseguiamo verso il greto del fiume, ed ecco che compare di colpo Africo, quasi confuso tra la vegetazione. Le costruzioni formano un corpo unico con la montagna. Siamo a 690 metri di quota, in uno dei luoghi più isolati dell’intero Aspromonte.

La realtà  di Africo coincide con la storia di uomini, donne, anziani e bambini,  casolari e ricoveri per le bestie, vette innevate e gole profondissime. Dai vecchi ruderi ci trasferiamo alla Mingioia, dove esiste una caratteristica chiesetta di epoca basiliana dedicata al culto di San Leo protettore del paese. Riprendiamo imboccando una pista appena percorribile a piedi che  scende rapidamente fino a giungere i piedi di un torrente. Risalendo l’altro versante della montagna si giunge ai  755 metri della frazione Casalnuovo, un’altro  piccolo nucleo abitato che guarda Africo dal versante opposto della montagna. A Casalnuovo c’è ancora qualche pastore, il centro, anche se quasi del tutto abbandonato si conserva comunque meglio rispetto ad Africo, anche perché fino a circa venti anni fa era discretamente abitato, fino ai primi anni novanta c’era addirittura un piccolo ufficio postale.
Le prime sconcertanti immagini della realtà di Africo sono quelle regalate al Mondo dagli scatti di  Tino Petrelli, le ultime in ordine di tempo sono quelle suggestive riservateci dal certosino lavoro di Vladan Radovid per Anime Nere, ad oltre ottant’anni  di distanza, i fotogrammi sono quelli di una vita vissuta in bilico tra l’Aspromonte e il mare, tra il presente ed un passato che, come sembrano voler suggerire le Anime Nere di Munzi, non vuole scomparire. “Sugnu africotu, lupu di montagna” dice una poesia che sembra quasi una nenia, e sembra dirlo anche la trasposizione cinematografica del lavoro di Gioacchino Criaco, proprio lui, che come pochi riesce a interpretare la sofferenza e la dignità di questa gente, col cuore di chi la storia di Africo l’ha vissuta dal di dentro, con la consapevolezza di chi sa che una nuova storia per Africo forse si sta già scrivendo

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