C’è da giurarci, qualche giorno fa c’è stata
gente incollata ai televisori, come non accadeva da tempo in occasione di
certi appuntamenti, gente che a certi appuntamenti, come David di Donatello,
preferiva certo una partita di calcio o al più una partitella a carte con gli
amici. “Anime Nere” di Francesco Munzi, tratto dall’ormai famoso e omonimo
lavoro di Gioacchino Criaco, è riuscito, tra le altre cose anche in questo, a
riconciliare tanti calabresi col piccolo schermo.
“Anime Nere” torna dalla cerimonia di premiazione dei David di Donatello e lo fa da trionfatore, un trionfo che è di Gioacchino Criaco e Francesco Munzi, ma anche della tanta gente che in questi anni ha contribuito alla creazione di un lavoro assolutamente eccezionale per fedeltà del racconto e capacità di tradurre su pellicola l’anima di tanta gente e, se vogliamo, di gran parte di un territorio tutt’altro che facile. Nove statuette non sono roba da poco, significano sicuramente molto di più di un semplice puntino nell’universo del cinema italiano e, se i prestigiosi riconoscimenti giungono a premiare un film che parla di Calabria, di Aspromonte e dei suoi mali, rivisitandoli ed offrendoli al grande pubblico attraverso un racconto che arriva dal di dentro, allora non si stenta a capire quanto valore possano avere quelle statuette. Sono passati più di tre anni da quell’incontro, ma ricordo ancora molto bene tutto anche i particolari, e ricordo soprattutto cosa mi passò in testa allora. Eravamo in piazza a Bova quando Gioacchino Criaco scese dal suo fuoristrada in compagnia di quel signore romano, scarpe da trekking ai piedi. “Ciao Gianfranco, ti avevo detto che saremmo passati a salutarvi, abbiamo fatto un giretto su a Carrà, ti presento Francesco, lui è Francesco Munzi ed è il regista di cui ti parlavo, ti ricordi ti avevo parlato dell’idea di quel film, bene ora pare si possa realizzare”. In quel preciso momento pensai che su Gioacchino, sulla sua bravura sulle sue intuizioni e sulla sua capacità non solo di dipingere in modo fedele un contesto assai particolare e difficile da raccontare ma anche e soprattutto di tradurre nero su bianco le sue emozioni e quelle della sua gente, su questo e anche su tanto altro, non avevo assolutamente dubbi, avevo letto il suo libro rimanendone affascinato. Qualche dubbio me lo suggeriva, invece, la capacità del territorio di recepire quel messaggio e soprattutto quella del regista di tradurre immagini, ambientazioni, simbolismi di un mondo assai chiuso e restio ad offrirsi all’esterno per come realmente è.
“Anime Nere” torna dalla cerimonia di premiazione dei David di Donatello e lo fa da trionfatore, un trionfo che è di Gioacchino Criaco e Francesco Munzi, ma anche della tanta gente che in questi anni ha contribuito alla creazione di un lavoro assolutamente eccezionale per fedeltà del racconto e capacità di tradurre su pellicola l’anima di tanta gente e, se vogliamo, di gran parte di un territorio tutt’altro che facile. Nove statuette non sono roba da poco, significano sicuramente molto di più di un semplice puntino nell’universo del cinema italiano e, se i prestigiosi riconoscimenti giungono a premiare un film che parla di Calabria, di Aspromonte e dei suoi mali, rivisitandoli ed offrendoli al grande pubblico attraverso un racconto che arriva dal di dentro, allora non si stenta a capire quanto valore possano avere quelle statuette. Sono passati più di tre anni da quell’incontro, ma ricordo ancora molto bene tutto anche i particolari, e ricordo soprattutto cosa mi passò in testa allora. Eravamo in piazza a Bova quando Gioacchino Criaco scese dal suo fuoristrada in compagnia di quel signore romano, scarpe da trekking ai piedi. “Ciao Gianfranco, ti avevo detto che saremmo passati a salutarvi, abbiamo fatto un giretto su a Carrà, ti presento Francesco, lui è Francesco Munzi ed è il regista di cui ti parlavo, ti ricordi ti avevo parlato dell’idea di quel film, bene ora pare si possa realizzare”. In quel preciso momento pensai che su Gioacchino, sulla sua bravura sulle sue intuizioni e sulla sua capacità non solo di dipingere in modo fedele un contesto assai particolare e difficile da raccontare ma anche e soprattutto di tradurre nero su bianco le sue emozioni e quelle della sua gente, su questo e anche su tanto altro, non avevo assolutamente dubbi, avevo letto il suo libro rimanendone affascinato. Qualche dubbio me lo suggeriva, invece, la capacità del territorio di recepire quel messaggio e soprattutto quella del regista di tradurre immagini, ambientazioni, simbolismi di un mondo assai chiuso e restio ad offrirsi all’esterno per come realmente è.
Oggi, a più di tre anni di distanza, dopo un
percorso davvero esaltante che ha consacrato i nomi di Criaco di Munzi e di
tanti altri, continua a colpirmi la capacità di quel regista di cogliere le
indicazioni di Criaco leggendo alla perfezione i dettagli di un microcosmo che,
se non lo conosci e se non lo hai vissuto dal di dentro, non riesci neanche ad
avvertirne le vibrazioni. I tanti riconoscimenti, questi ultimi in particolare,
tributati ad “Anime Nere” hanno di sicuro una valenza particolare, ce l’hanno
ancor di più perché giungono al termine di un lavoro davvero estenuante,
partito da lontano, assai prima di far giungere le macchine da presa su in
montagna, un lavoro che ritengo determinante, fatto di pazienza e capacità
comunicative, doti necessarie se vuoi far capire ad un regista, per quanto
bravo possa essere, una realtà dove le sfumature superano per importanza i
contorni netti. È stato forse proprio questo il limite della filmografia in
salsa calabrese e di quella limitatissima in salsa aspromontana sfornata fino
ad oggi. Superare il gap costituito dal dover raccontare realtà come
quelle di Africo e dell’Aspromonte più in generale, per certi versi sconosciute
anche a chi in questi luoghi è nato e cresciuto, non è cosa affatto agevole.
Far digerire a questa gente l’intrusione delle macchine da presa facendola
sentire a proprio agio tanto da coinvolgere via via interi paesi lo era ancora
meno, utilizzare accanto ad attori navigati tanti volti di questa terra che con
la macchina da presa non avevano mai avuto a che fare è stata poi un’intuizione
davvero geniale. “Anime Nere” ha questi merito e anche tanti altri, ha
soprattutto il merito di lanciare un importante messaggio di speranza, quello
attraverso cui Criaco e Munzi ci dicono che pur senza sconti, pur senza
metterci il prosciutto sugli occhi, bisogna trovare la forza ed il coraggio di
raccontare i fatti, la gente e i luoghi per come sono, ci vuole l’onestà e la
capacità di dire che certi fatti, certa gente e certi luoghi sono anche tanto
altro, quell’altro che giunge sempre ed inevitabilmente al termine di un lento
processo di metabolizzazione costato sangue, sudore e lacrime. Accanto ai tanti
occhi nei quali per anni si è letto distintamente il terrore, la paura e la
diffidenza, accanto a quelle labbra incapaci di un sorriso, accanto a quei
paesi diventati tristemente deserti, c’è un sentimento nuovo testimoniato da
quegli occhi sbalorditi che guardavano e si guardavano dalle comode poltrone di
un cinema cittadino, mentre sul grande schermo scorrevano le immagini di una
vita condensate in un battito di ciglia, luoghi, voci, suoni e facce
stranamente familiari, oggi in giro per il mondo, con quel finale che sembra
parlare più di tante parole e dire più di tante metafore, lasciandoti un urlo
strozzato in gola e davvero tanti interrogativi, regalandoti se vogliamo anche
tante risposte e soprattutto la speranza di continuare.
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