Sono tante le luci della
Calabria Greca, talmente tante che a guardarle bene, quasi ti sfuggono
le ombre, insomma, corri il rischio di sembrare di parte, poi guardi
meglio e ti accorgi che con un occhio più attento, anche le seconde
vengono a galla, lasciando una scia dal colore indefinito e dal gusto
inconfondibilmente amaro. L’altro giorno scendevo giù dalla montagna
lungo la strada che porta al paese, quando arrivato nei pressi del campo
sportivo, su quella sella naturale, unico accesso alla montagna che i
bovesi chiamano San Giovanni, mi sono fermato, attirato da un silenzio
che a volte sembra richiamare la tua attenzione più di qualsiasi altro
frastuono.
Parcheggiato lo scooter mi sono diretto
verso la tribuna coperta, dove dopo essere salito in cima mi sono seduto
ad ammirare quelle montagne dal sapore familiare, e poi lo Ionio e
sullo sfondo la sagoma dell’Etna. A farmi compagnia su quei gradoni,
solo lo scampanio dei collari delle capre, sospese come sempre quasi a
sfidare la fisica, giù tra i dirupi e con loro solo il rumore degli
alberi mossi da un insolito vento, un’atmosfera di fine estate che di
colpo mi ha fatto tornare in mente come in un flash un trentennio di
ricordi. Il primo, non so perché, è stato quello di un bosco di
eucalipto in un’atmosfera di inizio primavera, una di tanti anni fa, una
storia che mi ricorda un pallone finito i fondo alla rete e poi di
seguito, caroselli di clacson, maglie e bandiere fuori dai finestrini,
volti sorridenti e un’interminabile serie di curve, quelle che facevamo
per scendere e risalire a Bova, dove quella sera ci aspettavano la capra
bollita, il formaggio, i salumi, l’organetto ed il tamburello. Torniamo
per un attimo a quel bosco di eucalipto, a Benestare, nel cuore della
locride, in quell’inizio di primavera di 28 anni fa si scriveva l’ultimo
capitolo di una cavalcata trionfale, l’Associazione Calcio Bova
approdava ufficialmente in seconda categoria ad otto anni dalla sua
fondazione. Deve averne messa di forza Nunzio Siviglia per calciare
quella palla da metà campo a chiudere un rovesciamento di fronte che
vedeva come ultimo baluardo solo il portiere avversario. Era la
ciliegina sulla torta, il suggello su un’annata storica conclusa con la
vittoria del campionato che, a dire il vero la matematica ci aveva
consegnato già quindici giorni prima nell’acquitrino di Africo.
L’ostacolo da superare in quella occasione era il Samo, migrato sulla
costa per indisponibilità del campo di casa. L’1 a 2 finale frantumava
le speranze del Portigliola, unica inseguitrice, dando il via alla
festa. Tre pareggi e per il resto solo vittorie, un record che su a Bova
qualcuno ricorda ancora con orgoglio e di quei tre pareggi ne ricordo
uno in particolare, peraltro l’unico in casa, manco a farlo a posta
proprio col Benestare nella gara di andata. Il comunale quel giorno era
avvolto da una nebbia che aveva messo più volte a rischio lo svolgimento
della gara e dopo dieci minuti della ripresa, tra l’incredulità
generale eravamo sotto di ben tre reti, nessuno, neanche i più ottimisti
avrebbero immaginato che al termine dei novanta minuti ci saremmo
trovati sul 3-3 e l’incredulità crebbe ancora quando al ’94 l’arbitro
fischiava un calcio di rigore a nostro favore. Se quella sfera fosse
finita in rete anziché al lato, avremmo davvero gridato al miracolo, ma
forse per i poveri ragazzi di Benestare sarebbe stato davvero troppo.
Cronache e tabellini a parte, buoni solo per gli amanti dell’amarcord, c’è una cosa che va doverosamente sottolineata, per il piccolo centro aspromontano, la squadra di calcio locale ha assunto negli anni un significato che non può certo essere ridotto a semplice questione agonistica, ne era da sempre convinto il sindaco Pasquale Foti, che continuava a ripeterlo da quel lontano 1979, da quando cioè, a tutti i costi, vincendo la ritrosia e le facili ironie dei più scettici aveva insistito perché anche Bova avesse la sua squadra di calcio, non solo un’occasione di confronto sportivo diceva Pino Foti, come erano soliti chiamarlo gli amici più stretti, molto di più per un centro sempre al bivio tra la vita e la morte, un’occasione di ribalta sportiva ma anche e soprattutto una di socializzazione e di incontro, col campo sportivo che diventa appuntamento irrinunciabile per gli amanti del calcio e non solo, ed aveva proprio ragione il sindaco Foti, quelle maglie bianco verdi hanno rappresentato per anni un momento di incontro e socializzazione, quel campo di fronte alle montagne ha regalato pagine di vita e di sport che molti non dimenticheranno. È durata 31 anni la storia dell’A.C. Bova, una storia lunga che ha visto alternarsi momenti esaltanti ad altri di anonimato, fino alla stagione 2005/06, anno della seconda storica promozione.
Dopo di allora, altri quattro anni di
attività sportiva, poi di colpo, il vuoto. E proprio al vuoto ripensavo
l’altro giorno seduto su quella tribuna deserta, col vento che, ad
averli, mi avrebbe scompigliato di sicuro i capelli, pensavo al vuoto ed
al silenzio che mi stavano avvolgendo e che avvolgevano quel campo da
ormai troppo tempo. Il calcio da qualche anno a Bova non c’è più e
guardare quel campo teatro di tante pagine di storia non solo sportiva,
oggi desolatamente deserto, mi ha messo addosso una certa tristezza,
suggerendomi allo stesso tempo anche qualche riflessione. Lo sport,
verrebbe da dire, vive un momento di crisi generalizzata, e di questo
non ne facciamo mistero, vittima di una disaffezione collettiva non so
fino a che punto giustificabile e non so bene a cosa ascrivibile, ma a
Bova ed in luoghi come questo, lo dicevamo poco fa, lo sport ha diversi
obiettivi, la cui assenza è di certo non facilmente sostituibile. Penso
spesso a quella tribuna piena di gente che attende l’uscita dei ragazzi
dagli spogliatoi, penso a quei caroselli di tanti anni fa e a quei
volti, molti dei quali oggi non sono più con noi, penso soprattutto a
quella pazza idea di Pino Foti e a quella sua eccezionale intuizione
carica di voglia di vivere, e mentre rifletto su tutto questo
rivisitando nelle mente le immagini di mezza vita, penso anche che
sarebbe davvero bello rivedere quelle tribune riempirsi di nuovo,
sarebbe un’occasione per riaccendere la passione, per restituire allo
sport quel valore di aggregazione di cui, realtà come le nostre
necessitano in modo forte, sarebbe altrettanto bello poter regalare ai
più giovani certe emozioni, forse anche per regalare a noi stessi la
gioia di vederli ancora correre dietro un pallone che rotola sulla neve
prima di finire in rete.
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