I bivi nella vita sono tanti,
lo abbiamo già detto, così come tante sono le scelte differenti e i
piatti della bilancia su cui soppesare i risultati. Ci eravamo salutati
circa un mese fa con qualche interrogativo, col dilemma su quanto e
quale piatto si fosse abbassato di più nella bilancia della storia di
Bova e Ferruzzano uniti da una data, quella dell’11 marzo 1978, quando
un terremoto fece incontrare i loro destini poi divisi nuovamente, a
vent’anni di distanza, da scelte differenti.
Nella puntata precedente abbiamo detto
di Bova, anche qua, al pari di Ferruzzano, nonostante le differenti
strade intraprese, i rimpianti non mancano e sono quelli della tanta
gente che precipitosamente, in preda alla moda del momento o in qualche
caso costretta dagli eventi ha deciso di migrare di
qualche chilometro andando a rimpinguare le fila di una costa sempre più
anonima e imbruttita. Come dicevo il percorso di Bova nell’ultimo
trentennio, ma ancor di più negli ultimi vent’anni, lo conosco bene
tanto bene da poter valutare la ricaduta di una scelta sicuramente
lungimirante, quella di utilizzare quei famigerati quattro miliardi e
mezzo del vecchio conio destinati dalla legge 2/78 alla ricostruzione in
altro sito e restituiti dalla legge 3/97 per ristrutturare l’esistente,
per ridisegnare con pazienza e olio di gomito una geografia urbana
imposta da oltre trent’anni di cementificazione selvaggia. Dal cemento alla pietra il passo non è molto breve ma è
di assoluto impatto, è un salto che regala a Bova il simbolico ruolo di testimone del cambiamento. Da Bova
faccio ancora una volta un salto a Ferruzzano, proprio da quelle viuzze
avevo interrotto un mese addietro il mio racconto. Ferruzzano è luogo dal fascino
straordinario, che sembra nascondere sempre qualche aspetto che non sei
riuscito a cogliere e che va indagato, approfondito,
studiato, perchè si sa, le storie dei luoghi, delle persone che li
popolano e delle loro scelte, quelle che cambiano il corso degli eventi
vanno sempre contestualizzate se si vuole
comprendere a pieno i processi che le hanno partorite. A qualche giorno
di distanza dalla puntatina al vecchio borgo rimetto in moto la macchina
e mi dirigo ancora una volta a Ferruzzano, questa volta però mi fermo
alla marina verso la fine del paese, parcheggio scendo e busso ad una
porta, una delle tante che costeggiano a pochissimi metri di distanza la
ss 106 ionica. Mi accoglie la signora Agata, una che di
Ferruzzano sa davvero tutto, glielo leggi negli occhi, due occhi che
quando ti guardano sembrano voler proiettare la sua personale storia, e
quella di quel centro su uno schermo virtuale. Mi basterebbe già
questo, ma in realtà la sorpresa deve ancora arrivare. Entro in casa e
trovo il camino rigorosamente acceso, d’altronde siamo sempre a febbraio
nonostante lo Scirocco come spesso capita a queste latitudini, abbia
sostituito da qualche giorno il Grecale. Davanti al camino trovo seduta
ad attendermi la signora Francesca, classe 1920, due occhi vispissimi,
profondi e sinceri come quelli di chi sa che dalla vita
nonostante l’età c’è sempre qualcosa da imparare.
Mi ero fatto annunciare dalla figlia cui avevo spiegato il motivo della visita e la signora non perde tempo, dopo avermi offerto un caffè mi invita a chiedere cosa mi interessa sapere. Le dico di parlarmi del terremoto, dei suoi ricordi di quella sera, di quel periodo e soprattutto di come sia maturata la scelta di lasciare quel posto. «Cosa vi devo dire, sono passati tanti di quegli anni. All’epoca a Ferruzzano eravamo circa un migliaio di residenti ma la maggior parte erano fuori per lavoro al Nord e all’estero, in paese eravamo poco meno di seicento persone. Ricordo bene quella sera dell’11 marzo di trentasette anni fa, le strade erano piene di bambini, io ero a casa e mia figlia Agata era appena uscita per raggiungere la sezione del partito socialista dove c’era un congresso al quale partecipavano esponenti del partito venuti da tutta la Calabria. Quando la terra ha iniziato a tremare sono stati momenti interminabili. Dopo un fuggi fuggi generale ci siamo radunati in piazza, dove ci siamo subito resi conto che, nonostante non ci fossero stati feriti, i danni alle abitazioni erano pesanti e le scosse riprendevano di continuo. Dalla piazza ci siamo trasferiti a casa del farmacista Sculli da dove lo stesso farmacista e il sindaco Antonio Condemi chiamarono i primi soccorsi. Esercito, carabinieri, tanta gente comune, in paese era il caos. Allertata la Prefettura, in tempi record, già nel corso della successiva nottata, fummo trasferiti presso un albergo di Brancaleone dove siamo rimasti per quasi otto mesi assieme alla gente di Pietrapennata, una frazione di Palizzi che come noi era stata evacuata. Dopo meno di un anno ci siamo trasferiti dove siamo ora, ma in un accampamento di tende che ci aveva fornito, credo, la Regione o lo Stato. Non ricordo bene».
Mi ero fatto annunciare dalla figlia cui avevo spiegato il motivo della visita e la signora non perde tempo, dopo avermi offerto un caffè mi invita a chiedere cosa mi interessa sapere. Le dico di parlarmi del terremoto, dei suoi ricordi di quella sera, di quel periodo e soprattutto di come sia maturata la scelta di lasciare quel posto. «Cosa vi devo dire, sono passati tanti di quegli anni. All’epoca a Ferruzzano eravamo circa un migliaio di residenti ma la maggior parte erano fuori per lavoro al Nord e all’estero, in paese eravamo poco meno di seicento persone. Ricordo bene quella sera dell’11 marzo di trentasette anni fa, le strade erano piene di bambini, io ero a casa e mia figlia Agata era appena uscita per raggiungere la sezione del partito socialista dove c’era un congresso al quale partecipavano esponenti del partito venuti da tutta la Calabria. Quando la terra ha iniziato a tremare sono stati momenti interminabili. Dopo un fuggi fuggi generale ci siamo radunati in piazza, dove ci siamo subito resi conto che, nonostante non ci fossero stati feriti, i danni alle abitazioni erano pesanti e le scosse riprendevano di continuo. Dalla piazza ci siamo trasferiti a casa del farmacista Sculli da dove lo stesso farmacista e il sindaco Antonio Condemi chiamarono i primi soccorsi. Esercito, carabinieri, tanta gente comune, in paese era il caos. Allertata la Prefettura, in tempi record, già nel corso della successiva nottata, fummo trasferiti presso un albergo di Brancaleone dove siamo rimasti per quasi otto mesi assieme alla gente di Pietrapennata, una frazione di Palizzi che come noi era stata evacuata. Dopo meno di un anno ci siamo trasferiti dove siamo ora, ma in un accampamento di tende che ci aveva fornito, credo, la Regione o lo Stato. Non ricordo bene».
Chiedo alla signora se sa perché si sia
scelto di scendere verso la marina e quello che affiora dal racconto è
un quadro sempre più lucido e chiaro che mi conduce verso uno di quei
bivi cui faccio spesso riferimento. «Nel 1907 – prosegue la signora
Francesca – ci fu un altro terremoto che fece tantissime vittime
distruggendo buona parte del paese. L’idea di trasferire l’abitato partì
già da allora, quando il geologo Giuseppe Mercalli aveva lanciato la
sentenza dicendo che Ferruzzano di lì a cinquant’anni non ci sarebbe più
stato, inghiottito da altri terremoti e bradisismi. Dopo quel terremoto
nascono delle baracche in una zona che chiamiamo Saccuti, dove c’è un
piccolo nucleo abitato. Le famiglie influenti dell’epoca iniziano una
contesa per individuare il luogo più adatto a ricostruire il paese ma, a
dire il vero, la storia del trasferimento è lunga. Parte nel 1907 ma
c’è un’altra data importante che è intorno al 1920, quando nasce la
fermata della stazione ferroviaria alla marina. Fino ad una cinquantina
di anni fa usavamo costruire le logge a mare dove passavamo più di tre
mesi nei periodi più caldi, però, già dopo l’alluvione del 1951, molti
avevano iniziato a costruire per conto proprio in quest’area dove siamo
adesso. Possiamo dire che quel terremoto del ‘78 ha solo accelerato una
decisione che era stata suggerita da Mercalli e sottolineata da chi ha
voluto la fermata della ferrovia. Dopo il ‘78 arrivano però anche i
soldi della Regione e allora si decide di costruire tutto il paese. I
lavori sono durati quasi quindici anni e ora siamo qua, a raccontare
quello che è successo. Se penso a quel tempo, mi viene in mente che il
nostro era un paese ricco dove si allevava il baco da seta e si
produceva un ottimo vino, quello a dire il vero si produce ancora;
perché la nostra gente è legata ai terreni agricoli, ma, devo essere
sincera, lassù nel vecchio centro in molti abbiamo lasciato il cuore, là
ci abbiamo passato una vita e, nonostante ora siamo in marina, casa
nostra rimane quella».
Saluto la signora Francesca che ricambia
con un sorriso, la ringrazio per la sua preziosa ricostruzione, ormai è
quasi buio e mi rimetto in marcia verso casa, l’autoradio è accesa ma
in realtà e come fosse spenta, la mente è troppo occupata a mettere in
ordine tutte quelle informzioni, troppo occupata a capire come tradurre tutti quei sentimenti che chiedono di essere cristallizzati e consegnati al tempo.
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