Una domenica mattina, una come
tante in questa fine di Autunno, prendo l’auto, come facevo una volta,
senza una meta precisa e parto alla ricerca di luoghi familiari, forse inconsciamente cerco
l’interruttore per accendere i ricordi, quelli che si aprono nella mente
quando provi certe sensazioni che non riesci a spiegare, che forse ti viene meglio scriverle.
Scendo verso la marina, supero il ponte
dell’Amendolea e quasi senza rendermene conto prendo di nuovo la via
della montagna, verso monte Scafi.
Con i chilometri aumentano anche i
ricordi e penso che a chi non è mai stato da queste parti potrei
raccontare che venendo in Calabria, giù, sulla punta più meridionale
dello stivale, ci si può imbattere in un nastro d’argento che corre tra
fiordi mediterranei, brulli, altissimi, fragili e proprio per questo
continuamente modellati dallo scirocco. Se non fosse per il
colore grigio quarzo, sembrerebbe quasi un’autostrada messa li a posta,
per collegare il mare alla montagna.
Giri lo sguardo a valle e la distesa
d’acqua si perde fino a confondersi col cielo, subito dopo lo volgi a
monte e i colori cambiano rapidamente, diventano quelli della macchia
mediterranea, dei boschi di querce e castagni, della roccia brulla e
della ginestra. Poi se guardi attentamente, vedi, incastonate tra quei
colori, anche le case, che stanno li da centinaia di anni. Penso allora che l’Aspromonte greco è davvero un
microcosmo complesso, con un passato fatto di fatiche, di sofferenze, di
inverni freddi, di volti segnati e arsi dal sole, un presente in
chiaroscuro e un futuro che pochi vogliono scrivere veramente e molti
sembrano già avere decifrato.
Il chiaroscuro è quello di una Calabria
contadina ormai scomparsa, pezzo da museo all’aperto, con i suoi
profumi, la sua gente, i suoi ritmi sempre uguali, cartoline ingiallite
dal tempo, vittime di una società protagonista nell’ultimo quarantennio di
un’accelerazione impressionante che nel suo incedere ha travolto tutto e
tutti senza rispetto.
Continuo a guidare con gli occhi che
puntano la carreggiata, ma in realtà e come se fossero chiusi. Ho
trovato l’interruttore che cercavo e torno per un attimo bambino a
ripercorrere quelle stesse strade e per un bambino si sa, il concetto
spazio temporale è assai dilatato, quando sei piccolo vedi tutto molto
più grande. Guardo quei tornanti e ricordo la prima volta che salii
sull’Aspromonte, un viaggio tra strade sterrate, strette e polverose,
segnate da una serie interminabile di curve che più avanzavi più
sembravano ripide. Non era il solito Aspromonte quello che osservavo col
naso spiaccicato sul finestrino, provavo una sensazione strana, quella
era una montagna che non avevo mai visto, continuavo a ripetermi che
l’Aspromonte non era quello, non ci poteva essere montagna da dove non
si vedesse la rupe del castello o il Passo della Zzita.
Così, nel 1981, tra polvere e odore di
mandrie allo stato brado, imparai che c’era un altro Aspromonte a due
passi da casa, c’erano altre facce, c’era un dialetto quasi uguale al
nostro, c’era una vita che pulsava su quelle montagne che da lontano
sembravano ricovero per lupi e mandrie, scoiattoli e cinghiali e invece
erano piene di gente, tanta gente la cui personale storia iniziava e
finiva proprio su quelle alture.
Guardando quei paesaggi che oggi mi
tornano alla mente come nitidissime istantanee di una polaroid, pensavo
che l’Aspromonte che avevo conosciuto fino ad allora, era un’altra
storia, evoluto, senza quella polvere fastidiosa che ti entrava fin
dentro l’anima, da noi le strade erano tutte asfaltate, le case in
cemento armato si alternavano a quelle in pietra, le tv a colori, le
feste in piazza e la squadra di calcio locale ad accendere le domeniche,
anche quelle più buie sotto la nebbia. Nonostante i colori ancora
sfocati del nuovo decennio che salutava quello precedente con un
importante carico di aspettative, nonostante gli asini, quelli a
quattro zampe, passassero ancora davanti casa mia annunciandomi con un
tonfo sordo di zoccoli l’arrivo della neve, nonostante ancora giocassimo
a nuciddi, rrumbula e campanaru, il mio Aspromonte era davvero un’altra
cosa.
In quella montagna che stavo appena
scoprendo, i ritmi erano ancora quelli di trent’anni prima. Mentre
Roghudi e la sua frazione Ghòrio, avevano sperimentato in anticipo,
ormai da qualche anno, le avvisaglie del cambiamento, sradicati
da un’alluvione che ne aveva decretato lo sgombero, centri come
Roccaforte, Gallicianò, Condofuri con le sue popolose frazioni e
sull’altro versante anche San Lorenzo, rimanevano densamente popolati.
Negli ultimi anni, proprio come in
questa domenica di fine autunno, passo e ripasso spesso da quei luoghi,
l’asfalto è arrivato dappertutto, ormai da tanto tempo, e la polvere
non è più un problema. Mi fermo apro il finestrino e chiudo gli occhi,
d’un tratto la solitudine e l’abbandono scompaiono e riaffiorano alla
mente quelle facce, risento nelle orecchie quei rumori, gli schiamazzi
dei bambini, le massaie che si chiamano dai balconi, lo scampanio dei
collari delle mucche, inspiro profondamente e mi sembra di risentire su
per il naso l’odore della terra bagnata e dello sterco di capra, ma
anche quello del rosmarino e del basilico in bella mostra nei vasi di
terra cotta davanti alle case. Se continuo a tenere gli occhi chiusi,
sento che quelle immagini, in realtà non sono mai andate via.
Guardo l’orologio, si
avvicina l’ora di pranzo e mentre riprendo la via di casa penso che tutto
sommato, forse doveva andare così, cambiano le esigenze di una società profondamente diversa in cui quelle montagne, pur rimanendo sempre
uguali, sembrano sempre più strette. Il villaggio globale è
metafora dell’abbattimento delle distanze ed in
un mondo che non può e non vuole rimanere isolato, non c’è più spazio
per sognare una vita su questi monti, dove una vita nuova però, a ben riflettere, se solo si volesse, si protrebbe anche ripensare.
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